Cosa avrebbe detto il grande poeta Clemente Rebora se avesse saputo della citazione da parte di Papa Francesco di una sua poesia? Avrebbe probabilmente accennato ad un sorriso, perché proprio alla poesia aveva rinunciato per seguire la via del sacerdozio. Avrebbe pensato che le vie del Signore sono davvero infinite, e che la scelta del silenzio gli ha aperto per paradosso la strada dell’immortalità poetica. Proviamo per un attimo a metterci nei panni dell’autore dei “Frammenti lirici” basandoci sulle sue testimonianze autografe, sulla sua vita e sulla sua poesia.
“Quella poesia l’ho scritta un anno prima di morire. Che strano sia stato un Francesco a ricordarla. Il primo Francesco, il poverello, aveva detto qualcosa di molto simile. Aveva capito che noi abbiamo radici profonde nella terra, la parte inferiore del nostro corpo. E poi fronde verdi che toccano il cielo, la parte superiore. Qualcuno ha insinuato, – e aveva ragione – che il Cantico di frate Sole era un atto d’accusa ai Catari, che avevano orrore della materia e del corpo. Se il Signore è buono, come noi crediamo, allora ogni cosa da lui creata è buona, anche sorella morte. Anche il dolore. Quello che attraversai io prima di arrivare a quella pace che io credevo solo qui e ora. Perché lo so che Francesco, il pontefice, dico, con quella sua generosa e immeritata citazione del Pioppo voleva suggerire questo. Non possono esistere foglie senza radici, né radici da sole. Molti non hanno capito, soprattutto il leader francese di quelli che ai miei tempi mortali chiamavo massimalisti e che voi ora dite antagonisti. Non hanno capito che Papa Francesco non parlava unicamente la lingua della religione, ma dell’uomo, che è fatto di terra e di soffio divino. Io l’ho capito, da qui. Qui dove dovrei essere, e lo sono, in pace, alla pronunzia di quei miei versi da parte del successore di Cristo, un leggero, improvviso brivido mi ha attraversato. Perché per arrivare a quel Pioppo io ho camminato per luoghi deserti in cui regnavano l’aridità e il principio del piacere. Voi mi direte che è bello invece, perché il piacere è importante. Chi più di me potrebbe dirvelo: agli inizi del Novecento vivevo, cosa che per quel tempo non era così frequente, con una donna colta e sensibile, per di più artista: la mia Lidia era una valente pianista. Avevo l’amore, scrivevo poesie che un dì sarebbero diventate famose, venivo da una famiglia di saldi principi risorgimentali, mi avviavo all’insegnamento. Ero un privilegiato, per farla breve”.
“Eppure un giorno, preparandomi per una conferenza che dovevo tenere nella mia città, Milano, lessi di martiri che, nonostante la clemenza del giudice, che li avrebbe volentieri risparmiati, fecero la loro confessione di fede, scegliendo la morte. Mi si aprì una ferita dentro, che non si sarebbe mai più rimarginata. Sentii che la lussuria, la libertà, la fama, la cultura, soprattutto, una vana e inutile esibizione di erudite citazioni fini a se stesse, e perfino la mia amata poesia, erano ombre che nascondevano il vuoto. Tentai di reagire, andai a quella conferenza, mi sedetti tra gli applausi di benvenuto, mi apprestai a leggere quel passo. Lo feci apposta. Se avessi superato la prova, sarei tornato al me di prima, all’amore troppo umano, alla gioia, al desiderio che però mi lasciavano un senso di profondo vuoto. Ora sapevo perché”.
“Mentre leggevo di quei coraggiosi che rifiutavano la clemenza del giudice, capii che nella storia si parlava di me, che il giudice ben disposto era la mia vecchia vita, e che la testimonianza significava la morte alle antiche abitudini. Lo realizzai in un attimo, e allora persi la sfida. Non riuscii più ad andare avanti. Provai per ben due volte a ricominciare, poi tacqui. Per sempre. Non ho più voluto scrivere poesie una volta in convento. Solo la sollecitudine di parenti e superiori, convinti che la mia testimonianza fosse di grande rilievo, cosa di cui dubito fortemente, mi costrinse a riprendere la penna in mano. Volevo dimenticare ed essere dimenticato. E invece ottenni l’effetto opposto, e anche questo non è per caso”.
“Lo so, santo padre, lo so che tu hai capito, quando hai scelto quella mia poesia. L’Europa dei tuoi tempi è Clemente prima della crisi. Convinta che libertà assoluta, piacere, quadratura dei conti, e, paradossalmente, culto delle merci da consumare, siano il rimedio di tutto. Se gli scettici e gli spocchiosi conoscessero bene non tanto le grandi fedi, ma la sapienza antica, saprebbero che l’albero è il simbolo del Tao, e che sotto un albero amava sostare un sapiente, il Buddha, che io ebbi molto a cuore. E che la croce è fatta di albero. Non hanno capito. Come a me prima della conversione, la testimonianza, l’abbandono della desolante ricerca di soddisfazione immediata, fanno loro paura”.
“Si fa sera sulla terra, una leggera aura spira fin qui. Tacendi tempus est. Ogni cosa a suo tempo, capiranno. Come me”.
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