Chiunque sia iniziato alla lettura della Bibbia, che come un pellegrino ogni giorno percorre un tratto del Sacro Libro, avrà fatto l’esperienza di un cammino molto vario, a volte faticoso o lontano dalla propria vita, altre volte, invece, coinvolgente, come uno specchio in cui ha visto riflessa la propria esistenza, da cui si è sentito personalmente chiamato ad entrare in relazione con il Dio che in quella Parola si rivela. Credo che una di queste pagine sia il Salmo 40(39), che verrà proclamato nella liturgia della prossima domenica, di cui mi colpisce, in particolare, il versetto 7a, che, nella traduzione ufficiale dal testo ebraico suona così: Sacrificio e offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Se andiamo a tradurre letteralmente leggiamo: «Sacrificio e offerta non ti piacciono, gli orecchi mi hai scavato».
Dio non è il ‘signore’ che ama ricevere dai suoi vassalli omaggi e servigi in cambio della sua benevolente protezione; Dio è colui che ogni mattina, come dice il profeta Isaia (50,4), “scava” l’orecchio del credente, lo rende capace di contenere il Verbo, la Parola che ci chiama ad essere discepoli, santi per chiamata (II lett.), figli nel Figlio. Se avete fatto caso, la versione greca dei LXX dello stesso versetto, così come riportata dalla Lettera agli Ebrei (10,5), che lo attribuisce all’incarnazione del Cristo, recita: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Lungi dal creare confusione, quest’ultima altrettanto ispirata traduzione, ci dice che quella Parola, ascoltata dall’orecchio, ha bisogno di incarnarsi in un corpo che ne divenga presenza tangibile, di cui tutti possono fare esperienza, incontrando Dio nella relazione col credente di ogni tempo. E c’è una immagine che mette insieme la versione ebraica e quella greca, illustrando il “lavoro” che Dio fa con noi: è quella del vasaio, che per modellare al tornio un vaso da un pezzo d’argilla, anzitutto vi scava con le mani l’apertura e, penetrando dal di dentro, modella le fattezze del vaso fino a che non ha raggiunto la forma desiderata e idonea all’uso a cui è destinato. Sia tutta la nostra vita l’incarnazione del ritornello: Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà.
Come è consuetudine, l’Agenzia Fides pubblica alla fine dell’anno l’elenco degli operatori pastorali che hanno perso la vita in modo violento nel corso degli ultimi 12 mesi. Secondo le informazioni in nostro possesso, nell’anno 2010 sono stati uccisi 23 operatori pastorali:1 Vescovo, 15 sacerdoti, 1 religioso, 1 religiosa, 2 seminaristi, 3 laici.
Analizzando l’elenco per continente, anche quest’anno figura al primo posto, con un numero estremamente elevato, l’AMERICA, bagnata dal sangue di 15 operatori pastorali:10 sacerdoti, 1 religioso, 1 seminarista, 3 laici. Segue l’ASIA, con 1 Vescovo, 4 sacerdoti e 1 religiosa uccisi. Infine l’AFRICA, dove hanno perso la vita in modo violento un sacerdote ed un seminarista.
Il conteggio di Fides non riguarda solo i missionari ad gentes in senso stretto, ma tutti gli operatori pastorali morti in modo violento. Non usiamo di proposito il termine “martiri”, se non nel suo significato etimologico di “testimone”, per non entrare in merito al giudizio che la Chiesa potrà eventualmente dare su alcuni di loro, e anche per la scarsità di notizie che, nella maggior parte dei casi, si riescono a raccogliere sulla loro vita e perfino sulle circostanze della loro morte. A tale proposito registriamo, nell’anno che si conclude, l’apertura del processo di beatificazione del sacerdote Fidei donum don Daniele Badiali, originario della diocesi di Faenza (Italia), ucciso in Perù nel 1997, e la beatificazione del polacco p. Jerzy Popieluszko, martire, ucciso in odio alla fede il 20 ottobre 1984 nei pressi di Wroclawek, in Polonia.
Il martirio è “una forma di amore totale a Dio”, si fonda “sulla morte di Gesù, sul suo sacrificio supremo d’amore, consumato sulla croce affinchè noi potessimo avere la vita”, e la forza per affrontarlo viene “dalla profonda e intima unione con Cristo, perché il martirio e la vocazione al martirio non sono il risultato di uno sforzo umano, ma sono la risposta ad un’iniziativa e ad una chiamata di Dio, sono un dono della Sua grazia, che rende capaci di offrire la propria vita per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo” (Benedetto XVI, udienza generale 11 agosto 2010).
Le scarne note biografiche di questi fratelli e sorelle uccisi ci fanno comprendere come abbiano offerto tutta la loro vita, quasi sempre nel silenzio e nell’umiltà del lavoro quotidiano, “per amore a Cristo e alla Chiesa, e così al mondo”. Il loro impegno radicale e totale era l’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo, fatto non solo a parole ma con la testimonianza della propria vita, in situazioni di sofferenza, di povertà, di tensione, di violenza… senza discriminazioni di alcun tipo, ma con l’unico obiettivo di rendere concreto l’amore del Padre e promuovere l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio.
Alcuni sono stati vittime di quella violenza che combattevano o della disponibilità ad aiutare gli altri nelle piccole difficoltà quotidiane, mettendo in secondo piano la propria sicurezza. Anche quest’anno molti sono stati uccisi in tentativi di rapina o di sequestro finiti male, sorpresi nelle loro abitazioni da banditi alla ricerca di tesori immaginari. Altri ancora sono stati eliminati solo perché nel nome di Cristo opponevano l’amore all’odio, la speranza alla disperazione, il dialogo alla contrapposizione violenta, il diritto al sopruso.
“Il nostro mondo continua ad essere segnato dalla violenza, specialmente contro i discepoli di Cristo” ha detto Papa Benedetto XVI (Angelus del 26 dicembre 2010), ricordando come “la terra si è macchiata di sangue” in diverse parti del mondo, colpendo persino le comunità cattoliche riunite in preghiera nei luoghi di culto. A questo elenco provvisorio stilato annualmente dall’Agenzia Fides, deve quindi essere sempre aggiunta la lunga lista dei tanti di cui forse non si avrà mai notizia, che in ogni angolo del pianeta soffrono e pagano anche con la vita la loro fede in Cristo. Si tratta di quella “nube di militi ignoti della grande causa di Dio” – secondo l’espressione di Papa Giovanni Paolo II – a cui guardiamo con gratitudine e venerazione, pur senza conoscerne i volti, senza i quali la Chiesa e il mondo sarebbero enormemente più poveri.