VATICANO – “Quando sono debole, è allora che sono forte”. Queste parole di san Paolo, contenute nella seconda Lettera ai Corinzi, sono state il filo conduttore della catechesi dell’udienza generale di oggi, dedicata all’“esperienza personale” a cui san Paolo fa riferimento nel capitolo 12, dove “con grande pudore” racconta “il momento in cui visse l’esperienza particolare di essere rapito sino al cielo di Dio”, quattordici anni prima dell’invio della Lettera.
“Per non montare in superbia per la grandezza delle rivelazioni ricevute – ha commentato Benedetto XVI – egli porta con sé una ‘spina’, una sofferenza, e supplica con forza il Risorto di essere liberato dall’inviato del Maligno, da questa spina dolorosa nella carne”.
La risposta di san Paolo a questa “prova”, ha affermato il Papa, “rivela come egli abbia compreso che cosa significa essere veramente apostolo del Vangelo”: “Mi compiaccio nelle mie debolezze – si legge, infatti, nella seconda Lettera ai Corinzi – negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte”. “Questo atteggiamento di profonda umiltà e fiducia di fronte al manifestarsi di Dio – ha detto il Papa – è fondamentale anche per la nostra preghiera e per la nostra vita”.
La debolezza è forza. “Ogni difficoltà nella sequela di Cristo e nella testimonianza del suo Vangelo può essere superata aprendosi con fiducia all’azione del Signore”, ha assicurato Benedetto XVI, sottolineando come san Paolo “comprende con chiarezza come affrontare e vivere ogni evento, soprattutto la sofferenza, la difficoltà, la persecuzione: nel momento in cui si sperimenta la propria debolezza, si manifesta la potenza di Dio, che non abbandona, non lascia soli, ma diventa sostegno e forza”.
“Nella misura in cui cresce la nostra unione con il Signore e si fa intensa la nostra preghiera – ha proseguito il Papa – anche noi andiamo all’essenziale e comprendiamo che non è la potenza dei nostri mezzi che realizza il Regno di Dio, ma è Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza”. Per questo “dobbiamo avere l’umiltà di non confidare in noi stessi, ma di lavorare nella vigna del Signore, affidandoci a Lui come fragili vasi di creta”.
La forza si manifesta nella debolezza.
“È Dio che opera meraviglie proprio attraverso la nostra debolezza, la nostra inadeguatezza all’incarico”, ha assicurato il Papa, parlando a braccio sul tema della preghiera nella seconda Lettera di san Paolo ai Corinzi, che dimostra come “la forza si manifesta pienamente nella debolezza”.
“Paolo avrebbe preferito essere liberato” dalla “prova” descritta nella Lettera, ha commentato Benedetto XVI, ma il Signore gli ha risposto: “Avrai sufficiente grazia per resistere”. “Il Signore – ha spiegato infatti il Santo Padre – non libera dai mali, ma ci aiuta a maturare nelle sofferenze, nelle difficoltà, nelle persecuzioni”.
“La fede – ha proseguito il Papa – ci dice che se rimaniamo in Dio, anche se l’io esteriore si va disfacendo, anche se ci sono tante difficoltà, quello interiore si rinnova, matura di giorno in giorno proprio nelle prove”. “Anche noi siamo deboli, ma vivremo in Lui”, ha detto Benedetto XVI, spiegando come “la preghiera non allontana dal mondo, ma ci dà la forza di fare quello che si deve fare nel mondo”.
La sua tenda in mezzo a noi. “In un mondo in cui rischiamo di confidare solamente sull’efficienza e la potenza dei mezzi umani, siamo chiamati a riscoprire e testimoniare la testimonianza della preghiera”, ha ammonito il Papa, spiegando come “nella preghiera noi apriamo il nostro animo al Signore affinché Egli venga ad abitare la nostra debolezza, trasformandola in forza per il Vangelo”. Il Signore, ci insegna san Paolo, “continua a porre la sua tenda in noi, in mezzo a noi: è il Mistero dell’Incarnazione. Lo stesso Verbo divino, che è venuto a dimorare nella nostra umanità, vuole abitare in noi, piantare in noi la sua tenda, per illuminare e trasformare la nostra vita”.
Affascinante e tremendo. “Contemplare il Signore – ha spiegato il Papa sulla scorta di san Paolo – è, allo stesso tempo, affascinante e tremendo: affascinante perché Egli ci attira a sé e rapisce il nostro cuore verso l’alto, portandolo alla sua altezza dove sperimentiamo la pace, la bellezza del suo amore; tremendo perché mette a nudo la nostra debolezza umana, la nostra inadeguatezza, la fatica di vincere il Maligno che insidia la nostra vita, quella spina conficcata anche nella nostra carne”.
“Nella preghiera, nella contemplazione quotidiana del Signore – ha testimoniato Benedetto XVI citando la Lettera ai Romani – noi riceviamo la forza dell’amore di Dio e sentiamo che sono vere le parole di san Paolo ai cristiani di Roma: ‘Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore’”.
La vera mistica. “La mistica di san Paolo – ha precisato Benedetto XVI – non si fonda soltanto sugli eventi eccezionali da lui vissuti, ma anche sul quotidiano e intenso rapporto con il Signore che lo ha sempre sostenuto con la sua grazia”. “Anche nella nostra vita di preghiera possiamo avere momenti di particolare intensità, in cui sentiamo più viva la presenza del Signore”, ha commentato il Papa, “ma è importante la costanza, la fedeltà del rapporto con Dio, soprattutto nelle situazioni di aridità, di difficoltà, di sofferenza”. “Soltanto se siamo afferrati dall’amore di Cristo, saremo in grado di affrontare ogni avversità come Paolo, convinti che tutto possiamo in Colui che ci dà forza”, la convinzione di fondo del Santo Padre: “Quanto più diamo spazio alla preghiera, tanto più vedremo che la nostra vita si trasformerà e sarà animata dalla forza concreta dell’amore di Dio”. L’esempio additato dal Papa è quello della beata Madre Teresa di Calcutta.
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