LONDRA – Al centro della pratica sportiva c’è l’uomo. Al di là dell’abilità o della disabilità, categorie che al mondo dello sport vanno strette”. Non ha dubbi, il direttore dell’Ufficio Cei per la pastorale dello sport, turismo e tempo libero, mons. Mario Lusek, reduce dalle Olimpiadi di quest’estate e intervistato da Lorena Leonardi per il Sir mentre a Londra, fino al 9 settembre, vanno in scena le Paralimpiadi: “Lo sport ha tutta un’etica e dei valori che perfezionano l’uomo, lo spingono a un rapporto diverso con il proprio corpo, che non è da idolatrare ma uno strumento per vivere un’esperienza di vita interiore”. La spedizione azzurra a Londra per i Giochi paralimpici ha conquistato fino ad oggi 21 medaglie: 7 ori, 5 argenti e 9 bronzi.
Quale messaggio lanciano le Paralimpiadi?
“Ci pongono dinnanzi non all’esistenza dell’uomo con difficoltà, ma dell’uomo in quanto tale, che tende alla perfezione sfidando ostacoli che altri non hanno. Gli atleti paralimpici puntano a manifestare la propria normalità: esiste la persona con i suoi carismi, le sue potenzialità e i sui limiti”.
Che differenza c’è tra un atleta olimpico e uno paralimpico?
“Mettono lo stesso impegno, le stesse motivazioni e lo stesso stile. Hanno le stesse preoccupazioni e uguali disagi. Cambia il punto di vista particolare. Forse un atleta paralimpico si caratterizza per una maggiore determinazione. Non vogliono sentirsi espropriati di niente, anche nell’esperienza sportiva”.
Come si spiega il diverso trattamento mediatico riservato ai due eventi sportivi?
“In realtà sono centinaia di migliaia le persone che seguono dal vivo le Paralimpiadi, e moltissime le guardano in tv. La minore visibilità mediatica è dovuta ai fattori culturali che identificano l’esperienza paralimpica come di ‘serie b’. Ci vuole tempo. È una questione di cultura, di educazione. Si tratta di uno sdoganamento che ha riguardato e riguarda anche altri ambiti della vita sociale, pensiamo alle barriere architettoniche. L’importante è che non cali la sensibilità. L’ideale, secondo me, per ottenere una maggiore efficacia mediatica, è che Olimpiadi e Paralimpiadi avvengano nello stesso periodo, un po’ come accade per i Giochi del Mediterraneo. Quando arriva il campione, comunque, è sempre un campione, olimpico o paralimpico che sia”.
Che rapporto intercorre tra i grandi eventi e le realtà territoriali?
“A Casa Italia si lavora a un progetto, legato al Centro sportivo italiano e all’Expo Milano 2015, per valorizzare, accanto allo sport professionale di alto livello, anche lo sport di base. Che accoglie tutti, dal più al meno dotato. Pur non escludendo la cura dei talenti che emergono”.
Sport e doping, un binomio doloroso anche in queste Olimpiadi e Paralimpiadi.
“Vicende che insegnano l’importanza della vigilanza su noi stessi. E dimostrano che bisogna seguire gli atleti non solo dal punto di vista tecnico ma anche etico, accompagnandone la natura spirituale, con la prossimità nei momenti di buio e incertezza. Che poi accadono al cuore di ogni uomo. È, questa, ancora un’occasione per interrogarci sulla qualità della proposta sportiva. Si può sempre ripartire, recuperando una dimensione più umana. In quest’ultima Olimpiade la vicinanza della Chiesa al mondo dello sport s’è sentita molto”.
Come si sta accanto agli sportivi?
“Con la presenza, senza essere invadenti. Come un compagno di strada che propone Gesù Cristo. La Chiesa condivide i valori dello sport: il sacrificio, la costanza, l’impegno, la sfida con se stessi. Un uomo di sport, poi, può essere anche di fede, senza che vi sia contrasto. Così si diventa strumenti di testimonianza alta anche per i giovani”.
Di cosa ha bisogno, dal punto di vista spirituale, un atleta?
“Di vicinanza, comprensione e consolazione”.
Gli atleti che hanno il dono della fede hanno una marcia in più?
“Molti atleti venivano al villaggio olimpico con la Bibbia sotto braccio. Hanno una motivazione in più, direi. Non eccedono, non si sentono dei superuomini quando vincono e nemmeno dei perdenti quando vengono sconfitti. Sono impregnati di una dimensione che trascende il momento che vivono”.
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