DI Nicola Salvagnin
ITALIA – È fuori discussione che l’Italia abbia bisogno di riprendere a crescere economicamente. I numeri certificano che stiamo impoverendoci, e che comunque da una ventina d’anni galleggiamo, mentre altre nazioni hanno preso il largo. Insomma, la nostra ricchezza è ferma – se non peggio – e abbiamo una montagna di debiti sulla nostra testa, sui quali paghiamo una collina d’interessi.
È di tutta evidenza, quindi, che la medicina giusta sia quella di riattivare un’economia malata, che sta falcidiando posti di lavoro. Già, ma come? Tutti la invocano, la ripresa; ma – salvo mirabolanti piani politici e contraddittorie ricette dagli economisti – non sappiamo veramente da che parte cominciare. O meglio: non esiste l’aspirina che guarisca immediatamente il malato-Italia e lo faccia sollevare dal letto di degenza.
Piuttosto – ed è questa la ricetta-Monti – esiste tutta una serie di terapie, magari blande e a ridotta efficacia, che potrebbero rinforzare l’organismo e permettergli una più rapida guarigione. Anzitutto la messa in sicurezza dei conti pubblici, quindi bloccare l’emorragia che ha portato il nostro debito pubblico a sfiorare quota 2 mila miliardi di euro. Quindi una bella disostruzione delle arterie dell’economia, come un rinnovato diritto del lavoro, maggiori liberalizzazioni, qualche privatizzazione, alcune riforme più o meno strutturali e altro ancora.
Solo che l’iniziale salasso praticato al paziente a suon di tasse – appunto per sistemare i conti pubblici – nel frattempo lo ha indebolito ancora di più, come ha ammesso lo stesso premier Monti. E soldi pubblici per incentivare questo o quel settore economico, non ce ne sono proprio. Tagli strutturali alla spesa pubblica non ne sono stati fatti per non aggravare ulteriormente la situazione di decine di migliaia di famiglie, specialmente al Sud.
Quindi? Siamo nel momento cruciale. Il paziente non è morto, pare per ora sotto controllo. Ma c’è da tirarlo su in piedi perché, da immobile sul letto di dolore, certamente non cresce. Ma parliamoci chiaro: non c’è nel cappello di Monti un ulteriore coniglio da tirare fuori. Non si cresce per decreto legge. Il cambiamento lo dobbiamo fare noi tutti. Politici compresi, s’intende.
Si dice che l’Italia ha un feroce problema di produttività. Verissimo. Non significa: lavorare in quantità, ma in qualità. Produrre beni e servizi graditi al mercato, facili da esportare, ottimi per attrarre clienti soprattutto da oltre confine.
Un esempio per tutti. L’Italia ha 8 mila chilometri di coste, le più belle città d’arte e alcune tra le più spettacolari montagne del pianeta. Spesso, a sua insaputa. Lo sfruttamento delle sue bellezze si chiama turismo, e da anni stiamo perdendo posizioni su posizioni.
Esiste una grande catena alberghiera nazionale? No, e senza è impossibile attrarre turismo dagli Usa o dall’Estremo Oriente: non arrivano fin qui per cercarsi al momento un alberghetto… Esiste una rete intelligente di voli low cost dal mondo verso il nostro Mezzogiorno? No, mentre in Spagna, Turchia o Grecia sì.
Esiste un’autostrada meno infame della Salerno-Reggio Calabria? Traghetti verso le isole che costino meno di un volo intercontinentale? Un qualsivoglia treno con trasporto auto da Roma in giù? Una rete fitta e ben strutturata di aree specializzate per il turismo plein air? Strutture pubbliche di promozione e accoglienza che non siano del tutto estemporanee o mero frutto di un’amministrazione locale?
Insomma: perché gli oltre 50 milioni di tedeschi che fanno le vacanze all’estero, vanno ovunque tranne che a Sud di Firenze?
Le potenzialità del turismo internazionale sono enormi, i numeri sono in costante crescita. Valuta pregiata in entrata, posti di lavoro, occasioni di sviluppo e di riqualificazione territoriale, indotto (agroalimentare, trasporti, cultura, commercio) che ne ha tutto da guadagnare.
E, collegate al turismo, stanno le nostre città, poche delle quali attrezzate per un’accoglienza “alla francese”, per citare chi sa trasformare banali cipolle in pregiati ortaggi. Fa rabbia invece vedere i nostri tartufi presentati quasi sempre come banali e insapori tuberi: alberghi cari e non all’altezza; ristorazione con troppi chiaroscuri; servizi di accoglienza assenti o inadeguati; infrastrutture viarie respingenti; promozione all’estero semplicemente inesistente…
Sono questioni che conosciamo benissimo, sono cose che – misteriosamente – trascuriamo preferendo un approccio anarchico e arruffone. All’italiana, dicono di noi all’estero. L’agenda economica delle cose utili da fare nella prossima legislatura – con respiro ampio e tanto lavoro a seguire – sarebbe già piena zeppa, se qualcuno vorrà finalmente sfogliarla.
È di tutta evidenza, quindi, che la medicina giusta sia quella di riattivare un’economia malata, che sta falcidiando posti di lavoro. Già, ma come? Tutti la invocano, la ripresa; ma – salvo mirabolanti piani politici e contraddittorie ricette dagli economisti – non sappiamo veramente da che parte cominciare. O meglio: non esiste l’aspirina che guarisca immediatamente il malato-Italia e lo faccia sollevare dal letto di degenza.
Piuttosto – ed è questa la ricetta-Monti – esiste tutta una serie di terapie, magari blande e a ridotta efficacia, che potrebbero rinforzare l’organismo e permettergli una più rapida guarigione. Anzitutto la messa in sicurezza dei conti pubblici, quindi bloccare l’emorragia che ha portato il nostro debito pubblico a sfiorare quota 2 mila miliardi di euro. Quindi una bella disostruzione delle arterie dell’economia, come un rinnovato diritto del lavoro, maggiori liberalizzazioni, qualche privatizzazione, alcune riforme più o meno strutturali e altro ancora.
Solo che l’iniziale salasso praticato al paziente a suon di tasse – appunto per sistemare i conti pubblici – nel frattempo lo ha indebolito ancora di più, come ha ammesso lo stesso premier Monti. E soldi pubblici per incentivare questo o quel settore economico, non ce ne sono proprio. Tagli strutturali alla spesa pubblica non ne sono stati fatti per non aggravare ulteriormente la situazione di decine di migliaia di famiglie, specialmente al Sud.
Quindi? Siamo nel momento cruciale. Il paziente non è morto, pare per ora sotto controllo. Ma c’è da tirarlo su in piedi perché, da immobile sul letto di dolore, certamente non cresce. Ma parliamoci chiaro: non c’è nel cappello di Monti un ulteriore coniglio da tirare fuori. Non si cresce per decreto legge. Il cambiamento lo dobbiamo fare noi tutti. Politici compresi, s’intende.
Si dice che l’Italia ha un feroce problema di produttività. Verissimo. Non significa: lavorare in quantità, ma in qualità. Produrre beni e servizi graditi al mercato, facili da esportare, ottimi per attrarre clienti soprattutto da oltre confine.
Un esempio per tutti. L’Italia ha 8 mila chilometri di coste, le più belle città d’arte e alcune tra le più spettacolari montagne del pianeta. Spesso, a sua insaputa. Lo sfruttamento delle sue bellezze si chiama turismo, e da anni stiamo perdendo posizioni su posizioni.
Esiste una grande catena alberghiera nazionale? No, e senza è impossibile attrarre turismo dagli Usa o dall’Estremo Oriente: non arrivano fin qui per cercarsi al momento un alberghetto… Esiste una rete intelligente di voli low cost dal mondo verso il nostro Mezzogiorno? No, mentre in Spagna, Turchia o Grecia sì.
Esiste un’autostrada meno infame della Salerno-Reggio Calabria? Traghetti verso le isole che costino meno di un volo intercontinentale? Un qualsivoglia treno con trasporto auto da Roma in giù? Una rete fitta e ben strutturata di aree specializzate per il turismo plein air? Strutture pubbliche di promozione e accoglienza che non siano del tutto estemporanee o mero frutto di un’amministrazione locale?
Insomma: perché gli oltre 50 milioni di tedeschi che fanno le vacanze all’estero, vanno ovunque tranne che a Sud di Firenze?
Le potenzialità del turismo internazionale sono enormi, i numeri sono in costante crescita. Valuta pregiata in entrata, posti di lavoro, occasioni di sviluppo e di riqualificazione territoriale, indotto (agroalimentare, trasporti, cultura, commercio) che ne ha tutto da guadagnare.
E, collegate al turismo, stanno le nostre città, poche delle quali attrezzate per un’accoglienza “alla francese”, per citare chi sa trasformare banali cipolle in pregiati ortaggi. Fa rabbia invece vedere i nostri tartufi presentati quasi sempre come banali e insapori tuberi: alberghi cari e non all’altezza; ristorazione con troppi chiaroscuri; servizi di accoglienza assenti o inadeguati; infrastrutture viarie respingenti; promozione all’estero semplicemente inesistente…
Sono questioni che conosciamo benissimo, sono cose che – misteriosamente – trascuriamo preferendo un approccio anarchico e arruffone. All’italiana, dicono di noi all’estero. L’agenda economica delle cose utili da fare nella prossima legislatura – con respiro ampio e tanto lavoro a seguire – sarebbe già piena zeppa, se qualcuno vorrà finalmente sfogliarla.