ITALIA – Il problema sta, ancora oggi, nell’approccio culturale: le persone con disabilità, in Italia, sono “invisibili” e si tende a relegare la loro condizione nell’ambito dell’assistenza. Questo è ciò che emerge dalla ricerca su “I bisogni ignorati delle persone con disabilità. L’offerta di cura e di assistenza in Italia e in Europa”, presentata oggi a Roma, promossa dalla Fondazione Cesare Serono e realizzata in collaborazione con il Censis. Un’indagine che, come ha sottolineato il vicedirettore del Censis Carla Collicelli, segue un “approccio integrato, per vedere nel complesso come queste persone vengano trattate nei vari Paesi”.
Luci e ombre. Il risultato presenta “alcune luci”, ma soprattutto “diverse ombre” per una “realtà che si trova in fortissimo disagio – ha sottolineato Gianfranco Conti, direttore generale della Fondazione Serono -, invisibile non solo per i cittadini che non si trovano ad averne a che fare in prima persona, ma pure per l’agenda pubblica”. Innanzitutto “esiste prima di tutto un problema di approccio culturale”, ha evidenziato Ketty Vaccaro, responsabile del settore welfare del Censis, rilevando che “da noi la disabilità è un problema che rimanda all’assistenza, mentre negli altri Paesi è una questione di uguaglianza e integrazione sociale”. In Italia “dal punto di vista normativo la disabilità è stata oggetto di una serie di riforme e interventi di enorme importanza tra la fine degli anni settanta e la fine dei novanta”, trentennio nel corso del quale “sono stati riconosciuti e sanciti una serie di diritti fondamentali per le persone disabili”, dallo studio all’inserimento lavorativo. Il problema, quindi, è “il seguito concreto da dare al quadro normativo”, ha osservato Vaccaro, citando l’Osservatorio sulla condizione delle persone disabili, previsto dalla legge del 2009 ma del quale si sono poi perse le tracce. Venendo ai dati, “con 438 euro pro-capite annui – riporta l’indagine – l’Italia si colloca molto al di sotto della media dei Paesi dell’Unione europea (531 euro) nella graduatoria delle risorse da destinare alla protezione sociale delle persone con disabilità. In Francia si arriva a 547 euro per abitante l’anno, in Germania a 703 euro, nel Regno Unito a 754 euro, e solo la Spagna, con 395 euro, si colloca più in basso del nostro Paese”.
La delega alle famiglie. La ricerca rimarca come “il modello italiano rimanga fondamentalmente assistenzialistico e di fatto incentrato sulla delega alle famiglie, che ricevono il mandato implicito di provvedere autonomamente ai bisogni delle persone con disabilità, senza ottenere l’opportunità di rivolgersi a strutture e servizi che, sulla base di competenze professionali e risorse adeguate, potrebbero garantire non solo livelli di assistenza migliori, ma anche la valorizzazione delle capacità e la promozione dell’autonomia delle persone con disabilità”. “La cura e assistenza dei disabili basate sul tessuto familiare”, ha rimarcato Vaccaro, sono una “peculiarità del nostro modello”, nel quale “piccoli sostegni” provenienti dal pubblico e l’eventuale presenza di un badante – che comunque è a carico della medesima famiglia – “hanno un effetto perverso: accentuano la delega familiare e la deresponsabilizzazione del pubblico”. In sostanza, secondo la ricercatrice del Censis, “a differenza di quanto accade negli altri Paesi, qui sono i bisogni che devono adattarsi alla struttura dell’offerta, e viene meno quella tendenza alla personalizzazione finalizzata all’inclusione sociale”.
“Eccellenza” nella scuola, difficoltà nel lavoro. Vi è, poi, il lavoro. Censis e Fondazione Serono rilevano che “l’Italia è ancora molto indietro sul fronte dell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità”, lamentando come il sistema delle “quote” nelle assunzioni – per cui un’azienda, a seconda di quanti siano i suoi lavoratori, è obbligata ad assumere un certo numero di persone con disabilità – è lontano dalla concezione culturale di “pari opportunità”. Lavora solo il 31,4% delle persone con sindrome di Down e più di 24 anni, mentre il 57,2% frequenta un centro diurno (32,9%) o sta a casa (24,3%), percentuale che sale al 71,7%, contro un 10% di occupati, tra gli adulti con autismo. Meno della metà delle persone con sclerosi multipla tra i 45 e i 54 anni è occupata, “a testimonianza di quanto il mercato del lavoro italiano sia fortemente deficitario nella capacità non solo d’includere i soggetti deboli, ma anche di tutelare i lavoratori che si trovano ad affrontare una malattia cronica degenerativa come la sclerosi multipla”. Infine, una luce viene dalla scuola, dove quella italiana rappresenta “un’esperienza di assoluta eccellenza nel panorama europeo”, con le scuole speciali che “rimangono una fattispecie assolutamente residuale, se non irrilevante, nei percorsi educativi dei bambini e ragazzi con disabilità”. Anche qui, però, c’è un rischio: le risorse per attività di sostegno e integrazione degli alunni con disabilità “appaiono spesso inadeguate” e “le politiche di contenimento dei costi” potrebbero portare a “uno svuotamento di fatto dell’inclusione scolastica”.