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L’umile orgoglio di essere credenti

DIOCESI – Pubblichiamo l’omelia del Vescovo Gervasio Gestori per l’apertura dell’anno della Fede in Diocesi.
Vescovo Gervasio Gestori: Fin da bambino mi è stato insegnato a recitare ogni giorno, mattina e sera, la popolare preghiera: “Ti adoro, mio Dio, ti amo con tutto il cuore, ti ringrazio di avermi creato e fatto cristiano”. E’ la preghiera semplice, che quasi con gioioso stupore riconosce la vita come il primo dono di Dio e la fede cristiana come l’altra grande grazia. Se le parole più semplici sono anche le più vere, attribuire a Dio l’origine della vita umana e cristiana significa concretamente credere che Dio “non è un vocabolo del gergo ecclesiastico” (P. Sequeri), ma è parola-chiave che dice la sorgente del nostro essere, del nostro vivere e del nostro credere.  Noi siamo dono.

La fede è dono di Dio e quindi dobbiamo esprimere la consapevolezza di quanto si è ricevuto e la gratitudine per il suo valore inestimabile.
L’Anno della fede, che questa sera apriamo ufficialmente, è la preziosa occasione per riprendere coscienza di questo dono insperato, fondamento della vita spirituale, sostegno della nostra speranza anche nei momenti di prova e reale possibilità di andare oltre il presente per un futuro di bellezza e di gioia.

 

          La fede però è un rischio, perché non fa vedere con chiarezza quello in cui crediamo. Il grande patriarca Abramo, di cui ci parlavano la prima e la seconda lettura, rimane l’esempio sublime del credente, che si fida di Dio ed a lui ubbidisce, anche quando non comprende. Ecco il rischio della fede! Abramo abbandona coraggiosamente una terra conosciuta, dove ha la sua sicura abitazione, per credere alla promessa di una patria ancora del tutto ignota. Egli ha l’assicurazione di un figlio, che però tarda a venire per la sterilità della sposa e la vecchiaia sua. Egli accoglie l’ordine di uccidere Isacco, il figlio  lungamente atteso, ubbidendo ad un comando umanamente aberrante, che pone fine alla speranza di una discendenza. Quanto timore e quale tremore nella vita di questo uomo, che però non smette di fidarsi di Dio!
La fede è certamente questo rischio, ma un rischio calcolato sulla Provvidenza divina, e domanda persone coraggiose e sapienti, non gente paurosa, che non intende rischiare, non ha voglia di credere e vorrebbe tutto capire, anche se poi finisce per credere in tante altre cose poco meritevoli e non prive di ridicolo.

 

          Il racconto evangelico dei Magi ci insegna che la fede è risposta ad una chiamata. Attorno a questi sapienti, cercatori di Cristo, stava allora una umanità di ciechi, di pigri, di perversi, come annotava in una omelia nel Duomo di Milano il Card. Montini, poi Paolo VI (Discorsi, 1, pp.151). Accanto a loro vivevano persone statiche e sepolte nelle tenebre, che non volevano interrogarsi, non sapevano stupirsi, incapaci di guardare al futuro e indisposte a credere.
I Magi invece sono giustamente curiosi, desiderosi di capire, bisognosi di chiarezza, amanti di verità. Essi partono e, vedendo la stella brillare sopra quel bambino, intuiscono la presenza di Dio e credono, sentendosi ricolmi di una grande gioia. La loro fede viene premiata, perché il popolo dei credenti deve essere un popolo gioioso. La fede, infatti, dona gioia, dona la gioia della verità, offre quel “gaudium de veritate”, di cui parlava S. Agostino, perchè il credente si sente sicuro, avendo Dio vicino, come luce per l’anima e come forza per il cammino della vita.

 

         Mi chiedo allora come debba essere una comunità di credenti, come debba vivere la nostra comunità di credenti, innamorati del Signore e a Lui abbandonati con dedizione totale e generosa.

 

          La nostra Chiesa sia innanzitutto una comunità ricca di relazioni umane, sensibile alle collaborazioni, aperta ad atteggiamenti generosi, abitata da conoscenze amiche. E’ importante oggi coltivare in noi come credenti una forte dimensione umana. Alcuni decenni fa si teorizzava l’ideologia della “morte di Dio”, considerata come la grande scoperta che avrebbe liberato l’uomo dai condizionamenti delle religioni. Il risultato preoccupante è ormai sotto gli occhi di tutti: l’avere estromesso Dio dalla vita ha spinto l’umanità a vivere uno insulso edonismo ed uno sterile consumismo, dove la profezia della morte di Dio espressa da una falsa ragione adulta ha condotto a vivere in mezzo ai cocci di un umanesimo fai-da-te (P. Sequeri). Non è forse vero che la mancanza della fede in Dio sta distruggendo la grandezza intangibile di ogni persona e sta oscurando lo stupore per la vita umana? Non si sta livellando tutto a natura, privandoci dei valori e facendo piazza pulita di ideali veri?
In queste situazioni, dove la morte di Dio ha condotto alla perdita del rispetto per l’essere umano, emerga più forte la nostra testimonianza di credenti, che trovano nella fede le motivazioni per la difesa della dignità di tutte le persone, anche di quelle più deboli e più povere, e la valorizzazione piena di una libertà vera, sia nella vita individuale che in quella sociale.

 

         La nostra Chiesa sia inoltre essere una comunità simpatica, dove si vivono tutti i problemi e le difficoltà della gente comune, ma con uno stile che sa annunciare la potenza e la novità della fede, sull’esempio dei primi cristiani, che davanti ai non credenti “godevano di grande simpatia” (At 4, 35). Le nostre comunità siano belle, appaiano affascinanti e sappiano esprimere questa freschezza di vita e questa attrattiva della fede! Quanti stanno fuori e ci scrutano, attentissimi talora a criticarci, sono spesso anche desiderosi di cogliere segnali di luce e risposte valide ai loro bisogni di senso! Dobbiamo rispondere con la cordialità e con la simpatia della nostra vita. Vi esorto dunque a vivere questa pienezza di umanità che ci viene dalla fede: è cosa impegnativa, ma anche assai gratificante.

 

         Una comunità di credenti sa anche sciogliere le incomprensioni interne e deve mantenersi lontana da quelle contrapposizioni, che umiliano la bellezza della comunione e che erigono sterili muri davanti ai non sono credenti.
Tocca a noi pastori essere “collaboratori della vostra gioia”, come insegnava S. Paolo (2 Cor 1,24), e poi tutti insieme, pastori e fedeli laici, viviamo da seguaci di un Vangelo, che è notizia bella, gioioso annuncio, beatitudine che asciuga le lacrime, perché abbiamo la sicurezza del sorriso del Signore. Con il Vangelo Dio ha rotto il silenzio nel mondo, con la nostra fede gioiosa  rilanciamo l’annuncio della salvezza.

 

         Ed infine la nostra fede va non solo professata, ma anche pregata. La proclamazione del Simbolo durante l’Eucaristia è una risposta alla Parola ascoltata, ma è anche la libera restituzione nella preghiera a Dio del grande dono ricevuto. La fede diventi preghiera: riconsegniamola a Dio con la nostra libera povertà umana, perchè sia da Lui incoronata, cioè premiata.

 

          Carissimi,
sia dunque la nostra fede il fuoco che illumina le tenebre delle menti, sia il fuoco che brucia le tante paure della vita, sia il fuoco che riscalda i cuori!
E’ incominciato l’Anno della fede: vi invito a coltivare l’umile orgoglio di essere credenti. Nessuno abbia vergogna di professare la propria fede con la vita e con la parola, anche per non rischiare un giorno, al momento del giudizio, di non essere riconosciuti dal Signore.
E vi invito a pregare il “credo”, anche personalmente e non solo durante l’Eucaristia domenicale, ed a riprendere mattino e sera l’antica preghiera: “Ti adoro mio Dio, ti amo con tutto il cuore, ti ringrazio di avermi creato e fatto cristiano”.
Grazie, Signore, per il dono inestimabile della fede! Amen.