Di Fabio Zavattaro
ROMA – Nel consegnare il premio che porta il suo nome, istituito dalla “Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger – Benedetto XVI”, il Papa mette insieme tre documenti del Concilio e li inserisce nel cammino che la Chiesa ha intrapreso con l’Anno della fede, che fa memoria del Vaticano II, a cinquant’anni dalla sua apertura, e che chiama la comunità cristiana a riflettere sulla nuova evangelizzazione: due dichiarazioni, sulla libertà religiosa e sulle religioni non cristiane, e il decreto sull’ecumenismo. Certo sono i temi delle ricerche e degli studi dei due premiati, il gesuita padre Daley, che “studiando a fondo i padri della Chiesa, si è posto nella migliore scuola per conoscere e amare la Chiesa una e indivisa, pur nella ricchezza delle diverse tradizioni; per questo – afferma Benedetto XVI – egli svolge anche un servizio di responsabilità nei rapporti con le Chiese ortodosse”. E il professor Brague, “grande studioso – afferma il Papa – della filosofia delle religioni, in particolare di quella ebraica e islamica del Medioevo”. Ma è significativo che Benedetto XVI unisca ai due testi – la dichiarazione “Nostra Aetate” e il decreto “Unitatis Redintegratio” – la dichiarazione “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa.
È un trittico di particolare rilevanza che il Papa vuole così sottolineare, e lo dice ai due studiosi premiati: “A cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II mi piacerebbe rileggere insieme i due documenti conciliari” cui aggiungerebbe “un altro documento che si è rivelato di straordinaria importanza”, e cioè la dichiarazione sulla libertà religiosa. Sicuramente sarebbe molto interessante, afferma il Papa, “ascoltare le vostre riflessioni e anche le vostre esperienze in questi campi, dove si gioca una parte rilevante del dialogo della Chiesa con il mondo contemporaneo”.
La dichiarazione sulla libertà religiosa, tra i sedici documenti conciliari, ha anche un sottotitolo: “Il diritto della persona e delle comunità alla libertà sociale e civile in materia religiosa”. E questo perché i padri conciliari hanno voluto mettere al centro della riflessione – di qui le diverse stesure del testo – l’ambito morale, giuridico e politico del tema della libertà religiosa. Un testo che verrà accantonato dai padri conciliari nel 1964, anche per volere di Paolo VI, per essere discusso nel settembre del 1965, cioè l’anno successivo alla data prevista per la sua approvazione, o per lo meno della sua votazione in aula. Uno dei padri conciliari monsignor Emile Jozef De Smedt, vescovo di Bruges, in Belgio, morto il primo ottobre 1995, ebbe un ruolo non secondario, assieme ad altri, nella stesura del testo e in un’intervista diceva: “lo Stato non è competente [sul tema della libertà religiosa], non ha il diritto d’intervenire. Chi non è cattolico, non si può obbligarlo con la forza a ripudiare la propria coscienza; così allo stesso modo, i cattolici non possono essere impediti di seguire la loro coscienza”. Tema attualissimo, come sappiamo. Tema che ha avuto una profonda incidenza all’interno della Chiesa e che ha rappresentato un cambiamento nei confronti di un modo di guardare alle altre religioni. Una Chiesa che non è più preoccupata di difendere la sua posizione, la sua presenza, ma una Chiesa che sa guardare all’altro e offre il suo messaggio e lo presenta tenendo conto delle situazioni concrete con cui si confronta. Ed è qui la novità del messaggio conciliare, una Chiesa che si apre al mondo e che proprio da questa apertura trae la propria forza per mettersi in rapporto con le altre Confessioni religiose, cristiane e non cristiane.
Ecco allora quell’unità organica che Benedetto XVI evidenzia nei tre documenti citati. La “Dignitatis Humanae” ha operato il cambiamento fondando la questione della libertà religiosa sulla dignità della persona umana: “Si vanno sempre più unificando, si fanno sempre più stretti i rapporti fra gli esseri umani di cultura e di religione diverse, mentre si fa ognora più viva in ognuno la coscienza della propria responsabilità. Per cui – si legge nella dichiarazione conciliare – affinché nella famiglia umana s’instaurino e si consolidino relazioni di concordia e di pace, si richiede che ovunque la libertà religiosa sia munita di una efficace tutela giuridica e che siano osservati i doveri e i diritti supremi degli esseri umani attinenti la libera espressione della vita religiosa nella società”.
Ed è in questa chiave che vanno affrontati anche i temi legati al dialogo ecumenico e interreligioso. Se è vero che la divisione “non solo contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo”; se è vero che la Chiesa cattolica, come si legge nella “Nostra Aetate”, ha ricevuto “la rivelazione per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’antica alleanza”; e “nulla rigetta di ciò che è vero e santo in queste religioni” – e qui il documento conciliare parla dell’Islam, per il suo carattere monoteistico e il suo legame con la fede di Abramo, ma anche di induismo e buddismo – perché esse “non raramente riflettono un raggio della verità che illumina tutti gli uomini; se è vero tutto questo, ecco allora il legame stretto tra fedi professate e libertà religiosa. Si legge infatti nella dichiarazione “Dignitatis Humanae”, che il Concilio dichiara che “la persona umana ha diritto alla libertà religiosa. Questa libertà consiste in ciò, che tutti gli uomini devono essere immuni dalla coercizione da parte sia di singoli individui, sia di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, e in modo tale che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, ad agire in conformità ad essa: privatamente e pubblicamente, da solo o associato ad altri”.
È sicuramente questo il cuore del documento. E non è un caso che il Papa, nel suo discorso, metta assieme i tre documenti conciliari e dica che personalità come padre Daley e il professor Brague sono “esemplari per la trasmissione di un sapere che unisce scienza e sapienza, rigore scientifico e passione per l’uomo, perché possa scoprire l’arte del vivere”. Ed è proprio di “persone che, attraverso una fede illuminata e vissuta rendano Dio vicino e credibile all’uomo d’oggi, ciò di cui abbiamo bisogno; uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio attingendo da questa sorgente la vera umanità per aiutare chi il Signore mette sul nostro cammino a comprendere che è Cristo la strada della vita; uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio, perché possano parlare anche alla mente e al cuore degli altri”, perché gli uomini e le donne di oggi “possano scoprire e riscoprire la vera arte del vivere: questa è stata anche una grande passione del Concilio Vaticano II, più che mai attuale nell’impegno della nuova evangelizzazione”.

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