Qual è la sua opinione sul mantenimento dell’ergastolo ostativo?
“Come cittadini e come cristiani dovremmo in generale impegnarci per creare una mentalità, una sensibilità diversa nei confronti del mondo carcerario. Lo Stato ha il dovere di intervenire nei confronti dei cittadini che commettono reati, ma la sua azione non deve aggiungere ingiustizia a ingiustizia. Tutto il mondo della giustizia andrebbe rivisitato con la capacità di garantire realmente il rispetto della persona lasciando una porta sempre aperta alla speranza. Per quanto riguarda l’ergastolo ostativo, è ancor più necessario un impegno comune affinché si possa aprire uno spiraglio di vita per queste persone che con la sua abolizione potrebbero riprendere in mano la propria esistenza. La prospettiva della speranza è fondamentale per il recupero dell’uomo; è una fortissima motivazione e una specie di leva magica che sostiene anche nei momenti di maggiore buio”.
Come conciliare la tutela della legge e della sicurezza dei cittadini con il rispetto di chi ha sbagliato ma non può essere identificato solo nel suo errore?
“Anzitutto alleggerendo il carcere, riservando la limitazione della libertà ai casi più gravi e commutando per gli altri la pena, ad esempio, in obbligo a prestare servizi sociali a beneficio della collettività offesa con il reato. Ai disagi legati al sovraffollamento, oggi si aggiunge anche il taglio della spesa pubblica, che ha portato ad una considerevole diminuzione dei fondi destinati a garantire una vita dignitosa negli istituti di pena dove spesso viene a mancare anche il necessario”.
Si auspica di più parti un’amnistia…
“Un gesto che potrebbe risultare anche una sorta di riparazione perché la giustizia amministrata da esseri umani può talvolta essere essa stessa un atto di ingiustizia, come dimostra il caso Tortora, risollevato in questi giorni. L’amnistia è importante, ma se non viene affiancata da provvedimenti che imprimano un reale cambiamento di rotta alla strada che porta al carcere, è difficile che possa essere risolutiva. Dopo un anno la situazione tornerebbe la stessa di prima. Le carceri vanno alleggerite sia dirottando effettivamente i tossicodipendenti in strutture di recupero, sia con un ampio ricorso alle misure alternative, veicolo costruttivo di reinserimento sociale, dopo il quale la recidiva scende dal 30-40% al 15-17%. Affidamento sociale, arresti domiciliari, semilibertà costituiscono infatti una concreta facilitazione al reinserimento sociale successivo al carcere”.
Spesso il reato è frutto di situazioni di profondo disagio ed esclusione…
“Sì. Più che punire bisognerebbe prevenire le disfunzioni del tessuto della società, concause indirette di molti reati commessi da chi, relegato ai suoi margini e spesso in condizioni di estrema necessità, non sa come sbarcare il lunario o diventa manovalanza della criminalità organizzata. E oggi ci troviamo di fronte ad un aumento allarmante di persone a rischio delinquenza, soprattutto nelle grandi città”.
Quindi occorre soprattutto una nuova “cultura”?
“Il discorso sulla giustizia non può limitarsi alle sentenze e alle manette; dovrebbe ampliare l’orizzonte traducendosi in questione di grande responsabilità collettiva giocata soprattutto sulla prevenzione. Noi invece interveniamo solo sul reato e non siamo in grado di farci carico della rimozione delle radici dei comportamenti illegali. Ma una società di questo genere non può dirsi pienamente umana. Come affermava il card. Martini, occorre accostarsi a questa realtà con il metro della misericordia di Dio che sa andare oltre gli schemi umani codificati nelle leggi, per consentire che al centro del sistema penitenziario venga messa la persona e che la pena sia di fatto costruttiva e svolga la funzione rieducativa stabilita dall’art.27 della nostra Costituzione, volta al recupero e al reinserimento nella società. Leggere il reato con lo sguardo di Dio per capire che il male è anche una condizione di smarrimento da soccorrere”.