ITALIA – Gli italiani sono un popolo di formiche. Il problema, però, è che attorno al formicaio non c’è più l’abbondanza di un tempo. Eppure “la sfida della ripresa poggia sul risparmio”, titola l’88ª Giornata mondiale del risparmio, che si terrà il 31 ottobre 2012 a Roma e verrà preceduta dalla presentazione di una ricerca dell’Acri sulla propensione al risparmio degli italiani e di un accordo di collaborazione Acri-Abi per la valorizzazione delle rimesse dei migranti nei loro Paesi. Secondo un’indagine Censis-Confcommercio, resa nota nei giorni scorsi, solo il 17% degli italiani riesce a mettere da parte un po’ del proprio reddito, mentre il 65% “pareggia” tra entrate e uscite e il 18%, pari a 4,5 milioni di famiglie, non arriva alla fine del mese con quanto guadagna, ricorrendo quindi ai risparmi pregressi (56%), oppure posticipando i pagamenti (21%), chiedendo prestiti ad amici e conoscenti o alla banca. Sul rapporto tra gli italiani e il risparmio Francesco Rossi, per il Sir, ha interpellato Luigi Campiglio, docente di politica economica all’Università Cattolica.
In un tempo di crisi, di fronte a milioni di persone che arrivano a fatica a fine mese, ha ancora senso parlare di risparmio?
“Sì, ha un senso decisivo: il risparmio rappresenta la sicurezza che consente di guardare al futuro con fiducia. È il motore dello sviluppo e segnale delle difficoltà di una società. Per una famiglia, la capacità di risparmio è di capitale importanza”.
È però una possibilità sempre più rara…
“In Italia la capacità di risparmio delle famiglie negli anni novanta era una delle più elevate al mondo, il 24% del reddito disponibile. Questa quota è diminuita con un brusco calo alla fine degli anni novanta, poi progressivamente fino ad arrivare oggi a poco più dell’8%”.
Perché questo declino?
“Innanzitutto vi sono stati due errori di politica economica. Il primo coincide con l’ingresso dell’Italia nell’euro. Il debito pubblico, ancora nella seconda metà degli anni novanta, era prevalentemente in mano a residenti: famiglie e imprese, comprando titoli di stato, erano ‘creditrici’ e quindi i relativi interessi restavano all’interno dell’economia italiana. In tal modo, però, tra il 1995 e il 2000 le famiglie hanno registrato una diminuzione del reddito disponibile, legata a una riduzione dei tassi d’interesse pari a 4 punti del Pil, mentre la pubblica amministrazione ci guadagnava. Di conseguenza, entrando nell’euro si sarebbe dovuta diminuire la pressione fiscale, ma ciò non è avvenuto”.
E il secondo errore?
“L’aumento della pressione fiscale tra il 2005 e il 2010, che ha diminuito il reddito disponibile e la capacità di risparmio di altri due punti del Pil. A tutto ciò va poi aggiunto un elemento strutturale…”.
Ossia?
“L’Italia, diventando un Paese anziano, beneficia sempre meno del cosiddetto ‘dividendo demografico’. Pensiamo che in Cina, grazie a questo, vi è un tasso di risparmio che supera il 40% del Pil, ora messo in crisi dalla politica del figlio unico. Noi, però, viviamo una condizione di declino già da tanti anni”.
Tornando agli anni novanta, perché il debito pubblico ha smesso di restare all’interno del Paese?
“I rendimenti sulle attività finanziarie degli italiani ricchi sono diventati più bassi delle aspettative, e così costoro si sono diretti verso altri investimenti, mentre sono massicciamente entrati nel nostro mercato fondi e altri strumenti finanziari stranieri: la quota di debito pubblico in mano a residenti, tra l’inizio del 2007 e la fine del 2008, è diminuita dal 43,7% al 28,8%”.
Mentre cresce il divario tra “ricchi” e “poveri”…
“Con un ceto medio schiacciato e sempre più a rischio di scivolare verso la povertà. Pensiamo agli Usa e al movimento ‘Occupy Wall Street’, che dice di rappresentare il 99% degli americani. Questo non è uno slogan, ma una verità statistica: negli Usa l’1% delle famiglie a maggior reddito ha acquisito, nel 2007, una quota di reddito straordinariamente elevata, pari al 24%. Nel secolo scorso c’è stato solo un anno in cui si verificò un caso simile, ed era il 1928, alla vigilia della grande depressione”.
Tornando all’Italia, il precariato giovanile, ma non solo, porta a erodere i risparmi delle precedenti generazioni. Fino a quando si potrà andare avanti?
“Abbiamo ancora pochi anni a disposizione per una siffatta condizione. La ricchezza delle famiglie è sempre più corrosa perché il reddito guadagnato non basta, stanno emergendo formule assicurative che garantiscono agli anziani una rendita vitalizia in cambio della proprietà della casa, il settore immobiliare sta risentendo drammaticamente di questo stallo”.
In conclusione, possiamo tornare a essere un popolo di “formiche”?
“Anche adesso lo siamo, compatibilmente con il fatto che la raccolta del formicaio è più povera. Se prendiamo il risparmio come indicatore delle difficoltà economiche delle categorie sociali, vediamo che diverse vivono in una condizione drammaticamente peggiorata: sono i giovani, gli operai, chi abita in affitto, i monoreddito e, ahimè, le famiglie con figli, in proporzione diretta al loro numero. Siamo ancora in tempo però per attuare una riforma strutturale del welfare che aiuti le famiglie e il Paese a tornare a crescere”.
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