MARCHE – “In una realtà detentiva come questa del carcere, poter parlare liberamente attraverso un articolo di giornale sembra cosa semplice e quasi di diritto. In realtà chiunque conosce il carcere sa bene che non si viene privati solo della libertà fisica ma maggiormente dell’uso della parola. Noi non dobbiamo parlare ma solo ascoltare. Ecco, ‘Fuori riga’ deve essere quell’altoparlante che suona la parola come miglior sinfonia possibile”. Così Antonio descrive la sua esperienza di giornalista nella redazione di “Fuori riga”, periodico d’informazione pensato e scritto nel carcere di Montacuto, Ancona. Nato come proposta formativa per i detenuti, oggi il giornale è pubblicato dai settimanali diocesani della provincia di Ancona, “La voce misena”, “La voce della vallesina” e “Presenza”. A margine della “V giornata nazionale dell’informazione dal/sul carcere” (Bologna, 26 ottobre), abbiamo incontrato Laura Mandolini, giornalista de “La voce misena” e curatrice di “Fuori riga”.
A quali difficoltà deve far fronte una redazione di ristretti?
“Montacuto è una realtà particolare. Accoglie oltre 400 persone a fronte di una capienza di 170. Le condizioni di vita sono difficili, per i detenuti ma anche per gli agenti di polizia e gli educatori. La grande difficoltà, per la redazione, è che internet non si può usare, il computer non può entrare. Le fonti delle notizie sono molto limitate e non ci sono spazi in cui, indipendentemente dalla nostra presenza, i redattori possano lavorare al giornale. Dal punto di vista metodologico tutto quello che è scontato per noi, lì è difficile da trovare. Il giornale è una sfida impegnativa perché la materia prima sono le parole, frutto di pensieri. C’è stato per questo un lavoro preliminare di abitudine al confronto, uno sforzo prima di tutto nell’imparare ad ascoltare gli altri, che sembra poco ma in carcere è molto, ma anche nel crearsi un’opinione sulla propria vita, quella degli altri e quello che capita di fuori”.
Che obiettivi si pone questo lavoro?
“La cosa più bella che un giornale in carcere può fare, per i detenuti e per gli educatori, è quella di far vedere con occhi diversi il detenuto, il quale anche se ha sbagliato, non smette di essere una persona che pensa e i cui pensieri possono essere costruttivi per chi sta fuori. Ed è bello che quelle quattro pagine che vengono pubblicate siano oggetto di discussione e dibattito per chi sta fuori”.
Cosa chiedono i redattori ai lettori del loro giornale?
“L’esigenza più forte di queste persone è quella di non sentirsi abbandonati dal mondo esterno, non solo dalle proprie famiglie. Hanno voglia che si sappia come vive, al di là degli stereotipi, un detenuto. Vogliono che si sappia che hanno diritto a un rotolo a settimana di carta igienica, e che non sempre possono usufruire dell’ora d’aria perché sono troppi e in cortile non ci si sta. All’inizio il giornale è uno sfogo, ma pian piano passa la necessità di voler comunicare per non rimanere isolati. Che ci sia qualcuno che abbia voglia di incontrarli e di interpellarli li colpisce molto”.
Come risponde il territorio?
“Il fatto di essere inserito all’interno dei settimanali diocesani permette una circuitazione molto più ampia, diversamente da altre testate giornalistiche carcerarie, lette da chi è già sensibile a certi temi. Dopo il primo numero abbiamo ricevuto molte lettere in redazione di persone che avevano voglia di comunicare le loro impressioni ai detenuti. Il risultato è stato che molte persone che avevano letto “Fuori riga” hanno messo in moto altre iniziative di volontariato all’interno del carcere. Si sta inoltre costituendo un gruppo di volontariato carcerario all’interno di Montacuto. La città ha risposto, e ha attivato, tra le altre cose, delle collette per i detenuti stranieri, che spesso non hanno nulla. Il passo ulteriore che vorremmo fare è ragionare su percorsi di reinserimento lavorativo nella società, anche se è un obiettivo molto ambizioso”.
Da giornalista, c’è qualcosa che senti di aver imparato da questa esperienza?
“Ha rafforzato in me l’idea che ogni tipo di giornalismo, in ogni condizione, va fatto con professionalità. Mi fa poi toccare con mano quanto poco e quanto male si racconta il mondo del carcere, di cui si parla solo quando fa notizia. C’è invece un mondo di vite e di storie che andrebbero raccontate per creare società più serene e meno impaurite, più capaci di scommettere sulle fragilità. E questa è responsabilità dei giornalisti”.
Cosa significa per i settimanali diocesani pubblicare “Fuori riga”?
“I settimanali sono stati molto coraggiosi. Ma è stata una scelta fedele alla missione dei settimanali diocesani, quella di dar voce a chi non ce l’ha, e rendere le persone più consapevoli del territorio e delle vite che lo abitano, anche di quelle separate da una grata. Rientra nelle finalità e nelle libertà dei nostri giornali, che non devono rispondere a nessuno se non alla comunità di riferimento. È la libertà di potersi permettere di parlare anche con altre voci in modo consapevole, senza stare dietro alla cronaca”.