ITALIA – Una mappa dai confini nuovi. È quella del nostro Paese ridisegnata secondo la riforma approvata dal Consiglio dei ministri qualche giorno fa. Il provvedimento, che completa il riordino avviato lo scorso luglio, prevede, a partire dal 2014, la riduzione delle Province italiane da 86 a 51, con le elezioni dei nuovi vertici nel novembre del 2013, mentre dal prossimo primo gennaio verranno meno le giunte provinciali. Ma “ci sono dei rischi significativi” spiega a Lorena Leonardi, per il Sir, Marco Olivetti, docente di diritto costituzionale alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Foggia.
Quali ripercussioni avrà sul territorio il riordino delle Province?
“Le ripercussioni riguardano diverse dimensioni: la prima di carattere simbolico, legata a come è strutturato il nostro Paese. Le identità locali (municipali e provinciali forse ancor più di quelle regionali) hanno un ruolo molto importante, che ci rendono, tra i Paesi europei, più simili alla Germania che alla Francia: le ripercussioni simboliche, però, sono difficili da quantificare. Per quanto riguarda, invece, una sfera più ‘pratica’, quindi economica e sociale, è più facile che le ripercussioni giungano a rilento. La riforma non comporta immediatamente il licenziamento dei dipendenti ma solo la scomparsa degli organi politici nel giro di un anno e mezzo. Ma se pensiamo che la Provincia è un organo di decentramento statale, e quindi fa sì che ci siano sul territorio, ad esempio, una sede della Banca d’Italia e della Prefettura, c’è il rischio che alcune località, soprattutto quelle più marginali, subiscano conseguenze significative”.
Si tratta, a suo parere, di una strategia efficace nell’ottica dei tagli alla politica?
“Da un punto di vista quantitativo, rispetto alla razionalizzazione delle spese non ha grande incidenza, ma riveste una grande importanza dal punto di vista della bonifica del nostro sistema democratico. Questa scelta sembrerebbe andare in entrambe le direzioni, ma presenta alcune contraddizioni. Bastava prevedere che gli organi delle Province venissero eletti indirettamente e non più dai cittadini. La riduzione del numero degli enti agisce soprattutto in prospettiva: credo che si possa dubitare sull’incidenza effettiva di queste misure e sul fatto che il Paese ci guadagni. Il Paese non è fatto soltanto dalle grandi città, dalle grandi imprese, dalle grandi università e dalle grandi banche rappresentate da questo governo, ma dalla Provincia italiana, che invece viene dimenticata: questo è il governo istintivamente più centralista di tutta la storia d’Italia. Ho molti dubbi su tanti provvedimenti, anche per quanto riguarda le Regioni. Utilizzando l’opinione pubblica diffusa nella stampa, il governo ha fatto un corto circuito tra il problema dei costi della politica e gli interventi per ridurre il potere di questi enti, mentre queste due cose non necessariamente vanno assieme. E poi soggiace il presupposto implicito, che andrebbe dimostrato, per cui il centro sia meglio della periferia”.
A proposito di Regioni, se ne annuncia una drastica riduzione.
“Bisogna rivedere il rapporto tra Regioni, Province e Comuni, e quale ruolo s’immagina per ciascuno di questi livelli di governo. L’idea di ridurre non sarebbe di per sé criticabile. Bisogna, però, avere una visione di sistema. La mia obiezione riguarda le procedure, perché occorrerebbe una legge di revisione costituzionale che coinvolga le popolazioni interessate. Anche in materia di Province, l’operazione è di dubbia costituzionalità: vero è che la riforma non ne prevede la soppressione, ma ne regolamenta la suddivisione, però una lettura rigorosa della Costituzione, soprattutto dell’articolo 133, non credo possa giustificare la procedura. Ad ogni modo, ritengo che la Corte costituzionale non le andrà contro. Per le Regioni, invece, l’ostacolo costituzionale c’è, eccome. Sarebbe bene che i membri di questo governo s’interroghino se sugli interventi di natura costituzionale non serva un consenso dell’opinione pubblica generale”.
Quali soluzioni immagina per gli enti territoriali?
“Abbiamo parlato per più di dieci anni di ‘Repubblica delle autonomie’ e la Costituzione nel 2001 è stata modificata per garantire un ruolo agli enti territoriali. Se la Provincia è un ente che non serve più, e ci sarebbero ragioni per sostenere questo, soprattutto con la presenza delle Regioni, allora andrebbe seriamente rivisto il discorso della riduzione a otto Regioni, che sarebbero troppo poche. Ma se non si arriva a questa conclusione, per la quale, comunque, servirebbe una riforma costituzionale, bisognerebbe spiegare il senso di questa operazione di taglio di una cinquantina di enti provinciali. Che dubito produrrà direttamente un beneficio economico significativo. Bisognerebbe, a mio parere, ripartire dalla situazione storica, ed eliminare le Province istituite negli ultimi quarant’anni, che sono il prodotto dei localismi della peggior specie. Il governo avrebbe dovuto rimettere indietro l’orologio della storia amministrativa, ponendo un freno alla moltiplicazione degli enti provinciali recenti e mantenendo quelli che esistevano già negli anni Settanta, prodotto di una graduale evoluzione storica, e non di operazioni matematiche, che mi lasciano perplesso”.
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