Di Damiano Beltrami – da Columbus (Ohio)
STATI UNITI – Si festeggia al bar EndZone di Columbus, in Ohio, dove sono radunati tanti sostenitori del partito democratico. Barack Obama, primo presidente nero eletto nella storia americana, dopo il trionfo di quattro anni fa, resta alla Casa Bianca. E lo fa grazie a un’altra storica vittoria in Ohio, uno degli “swing state” chiave nella mappa elettorale americana. “Ho votato in anticipo e ho votato per Obama”, racconta Ahmad Khalil, tassista egiziano trapiantato a Columbus, “se avesse vinto Romney ci faceva un’altra guerra in Medio Oriente, l’economia si piantava completamente e il taxi mi toccava venderlo”. Musi lunghi, invece, alla taverna “The Buckeye Hall of Fame”, a un meeting della Conservative Cavalry, un gruppo di repubblicani libertari. “Sembra che la dittatura duri ancora quattro anni”, dice laconico Walter Wilkinson, bibliotecario della zona. “Speravo di tornare a uno Stato federale, a una democrazia”.
Il verdetto delle urne. Dopo centinaia di comizi, innumerevoli gaffe, confronti televisivi e sondaggi contrastanti, è dunque arrivato il verdetto delle urne. Per i risultati definitivi occorrerà attendere ancora qualche ora: si tratta di conoscere l’esatta assegnazione dei “grandi elettori”, i risultati del voto popolare, gli esiti delle votazioni per Camera e Senato e per diversi Governatori, nonché i risultati di svariati referendum a livello dei singoli Stati. Ma già si sa che non cambieranno gli equilibri nel Congresso: i democratici mantengono il controllo del Senato e i repubblicani quello della Camera. Il che vuol dire che per Obama governare non sarà facile. Gli Stati Uniti restano un Paese diviso a metà. Dopo che la vittoria alle elezioni del 6 novembre appariva ormai certa, Obama nella notte ha ringraziato i suoi attivisti che ha definito “i più fantastici della storia della politica”. Obama ha affermato di credere fermamente in un futuro roseo per l’America, e ha fatto appello al senso di responsabilità di democratici e repubblicani affinché lavorino alle riforme di cui il Paese ha bisogno.
Il “fattore Clinton”. Se la vittoria del 2008 per Obama fu nel segno della voglia di cambiamento dopo l’era di George W. Bush e delle guerre in Afghanistan e Iraq, questa potrebbe senza dubbio essere contraddistinta dal ruolo giocato da Bill Clinton nella campagna elettorale. L’ex inquilino della Casa Bianca è stato autore di quello che per la gran parte degli osservatori americani è stato il migliore discorso di entrambe le convention, riuscendo a spiegare meglio dello stesso Obama perché un ritorno al partito repubblicano sarebbe stato negativo per l’economia americana.
Lunga sfida. Queste presidenziali erano cominciate nell’agosto del 2011, quando una pattuglia di candidati repubblicani, in gran parte improbabili, aveva iniziato a scorrazzare per fiere suine e sagre di paese dell’Iowa, il primo Stato a esprimersi con i caucus, le primarie locali. Primaria dopo primaria, tutta una serie di candidati si è persa per strada. Alcuni per manifesta inadeguatezza (Michele Bachmann, Rick Perry), altri per “iper purezza ideologica” e mancanza d’appoggio della nomenklatura del partito (Ron Paul), altri ancora per carenze organizzative (Rick Santorum). A fatica, e dopo diverse imbarazzanti battute d’arresto, l’ex governatore del Massachusetts, Mitt Romney, ha conquistato la “nomination”, l’investitura del “Grand Old Party” per sfidare il presidente Obama. A questo punto Romney ha dato il via a una studiata mutazione delle sue posizioni su tutta una gamma di temi, dall’immigrazione alla politica estera. Via i toni accesi utili a ingraziarsi i voti dei repubblicani duri e puri, e ritorno a un ventaglio di idee più centriste. E poi lente d’ingrandimento sulle sue competenze di businessman in grado di mettere in sesto l’economia.
Romney non decolla. La “grande mutazione” doveva andare in scena alla convention di Tampa in Florida ed essere un’operazione di lifting mediatico così perfetta da tramutare un super-ricco dal background privilegiato (il padre di Romney, George, era governatore del Michigan) in un uomo d’affari che si è in larga parte costruito la sua fortuna da solo, superando grosse difficoltà, perfino ristrettezze economiche nei primi anni del suo matrimonio, quando, con la moglie Ann – parole della signora – i due abitavano in “un seminterrato” e per risparmiare mangiavano solo “pasta col tonno”. Eppure, la convention repubblicana non ha sortito gli effetti sperati. Non si è verificato alcun “convention bump”, nessun balzo in avanti nei sondaggi causato dall’esposizione mediatica. E dopo la convention del partito democratico a Charlotte, in North Carolina, illuminata dai discorsi di Michelle Obama e, come detto, di Bill Clinton, Romney a fine settembre sembrava distante anni luce dal presidente.
Quanto conta Sandy? A rilanciare Romney nella corsa elettorale è stato proprio Obama con la performance fiacca del primo dibattito televisivo il 3 ottobre. Da questo momento in poi è cominciata una grande rimonta dell’uomo d’affari prestato alla politica. È riuscito ad attrarre sempre più l’elettorato maschile incerto, e soprattutto quello delle donne. Il vento favorevole per Romney è cambiato solo negli ultimi dieci giorni, da quando ha conquistato la scena mediatica il micidiale uragano Sandy e Obama è apparso più volte in televisione, come accade sempre a un presidente in questi casi, nella veste del “comandante in capo” che si fa carico della ricostruzione.