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UE e Striscia di Gaza, rompere il silenzio

Di Francesco Bonini

PALESTINA – Serve “una soluzione a lungo termine che assicuri pace e sicurezza alla gente che vive in quella zona”, parola di Catherine Ashton, alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. È un personaggio ben poco noto al grande pubblico, proprio perché la politica estera dell’Unione europea è ancora un dato assai evanescente.
Eppure sarebbe il momento che cominciasse a emergere, proprio in questi giorni, di fronte all’ennesima tensione ai confini d’Israele. Questa nuova crisi di Gaza, infatti, è nello stesso tempo antica e nuova. Antica perché il tema dei conflitti interni al campo palestinese, intorno al ruolo e all’identità di Hamas, ai suoi appoggi nella regione, fino all’Iran e nel mondo arabo, già era stato al centro dell’operazione “piombo fuso” del 2008. Oggi a queste molteplici, trasversali tensioni, si aggiunge il nuovo scenario che deriva, da un lato, dall’esito delle “primavere”, in particolare in Egitto, dall’altro, dalla politica “neo-ottomana” della Turchia di Erdogan ed è messo in evidenza anche dal nuovo protagonismo nella regione (così come sulla scena finanziaria e sportiva europea) di Hamad bin Khalifa Al Thani, emiro del Qatar. Tanto più che è ancora drammaticamente aperto il conflitto interno alla Siria.
Insomma, sembra che questa volta le dinamiche “regionali” del conflitto risaltino in modo nuovo, rendendo, se possibile, ancora più complessa la matassa della prima crisi che ha salutato il secondo mandato del presidente Obama. Gli Stati Uniti dal canto loro, come dimostra il tragico attentato di Bengasi, hanno non poche difficoltà a padroneggiare un’evoluzione generale della regione che continua ad avere contorni molto problematici.
Il fatto è che, se il conflitto di Gaza è sempre più anche un conflitto caratterizzato da dinamiche regionali, è forse necessario che non solo i singoli Stati europei, ma l’Unione europea in quanto tale in prospettiva assuma sempre meglio le proprie responsabilità, che sono anche delle responsabilità regionali.
Che la “soluzione duratura e sostenibile” che Catherine Ashton ha evocato passi attraverso la creazione di due Stati, israeliano e palestinese, è difficile da mettere in dubbio. Tuttavia, è altrettanto evidente che le tensioni e i conflitti vecchi e nuovi che si stanno accumulando pregiudicano alla radice questo obiettivo sacrosanto. Verso il quale è, dunque, necessario muoversi in modo graduale, coinvolgendo tutti gli attori e soprattutto offrendo le necessarie garanzie a tutti, a partire ovviamente da Israele. Il gioco dell’estremismo da sempre è a vantaggio di chi continua a speculare sul conflitto e non vuole la pace. E neppure quello sviluppo di cui l’intera ragione ha sempre più bisogno.

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