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Diritti dell’infanzia, ogni vita va protetta

UNIONE EUROPEA – La Convenzione Onu per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, della quale oggi si celebra il 23° anniversario, chiama in causa tutti gli esseri umani minorenni, compresi i “non nati”. Ne è convinto Cesare Mirabelli, giurista, docente e presidente emerito della Corte costituzionale, che ieri a Roma ha presentato il volume di Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita (Mpv), dal titolo “Noi non li dimentichiamo (viaggio tra i bambini non nati per celebrare la Convenzione sui diritti dell‘infanzia)”. A margine dell’incontro, il Sir lo ha incontrato.

Perché fare memoria della Convenzione Onu per ricordare i bambini non nati?
“La Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia è di grande interesse. Essa indica, nel suo preambolo, come vi sia bisogno di una particolare protezione giuridica e di cure speciali per il fanciullo sia prima, sia dopo la nascita: all’art. 1 definisce che ‘s’intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni’. L’essere umano è uno di noi fin dal concepimento, e fin da quel momento ha quindi diritto alla vita, come riporta l’art. 6, e di essere protetto. Si tratta di prendere sul serio queste enunciazioni. Il libro di Casini non vuole essere solo uno scritto per la ricorrenza della Convenzione Onu, ma porre in luce i problemi che abbiamo, affrontando le tematiche non con uno sguardo confessionale, ma sul piano della razionalità. Di fronte all’essere umano occorre esaminare con attenzione quali elementi critici vi siano quando si abbandona il principio di protezione”.

E quali sono, a suo avviso, gli ‘elementi critici’ più cogenti di fronte al bambino non nato?
“La prima criticità si ha laddove il diritto porta alla protezione del più forte, e non del più debole. Quando il diritto alla salute viene declinato come diritto a eliminare il bambino, o feto, portatore di una malattia, non si ha forse l’affermazione del potere del più forte a scapito del più debole? Un altro elemento critico si ha allorquando nella giurisprudenza si affaccia, come è avvenuto, una sorta di risarcimento per il caso in cui non vi sia stato aborto e sia nato un bambino non sano. Fortunatamente ci sono pure segnali di orientamento opposto, ad esempio quando la giurisprudenza comunitaria garantisce la non brevettabilità e manipolabilità di elementi che riguardino l’embrione e la vita. Ogni attività dev’essere a favore, e non contro l’embrione: questa è la chiave dominante. Ricordo pure i diversi casi, riportati nel libro, di madri coraggio, che hanno posto a rischio, e talora perso, la loro via per non sottoporsi a cure che avrebbero messo a repentaglio la salute e la sopravvivenza del bambino che portavano in grembo: sono davvero casi nei quali si sperimenta il senso di protezione dell’indifeso”.

Dal 1978 a oggi, secondo i dati del Mpv, si sono registrati oltre 5 milioni di aborti “legali”. Eppure la Convenzione Onu, come ha detto, riconosce il diritto alla vita…
“E pure la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale non nega il diritto alla vita del nascituro, ponendolo in bilanciamento con il diritto alla salute della madre. Si apre qui un punto critico: quando si parla di aborto terapeutico, ad esempio, c’è un’evidente edulcorazione dei termini, portando a pensare alla terapia, e non alla soppressione del soggetto. È terapeutico per chi? Per la madre? Senza impostazioni bellicose occorre lanciare un invito forte a riflettere su interessi che sono generali, di tutti, pur partendo da impostazioni differenti. Il primo di questi è la necessità di proteggere la vita. Così, quando si parla di embrioni soprannumerari bisogna porsi l’interrogativo: soprannumerari rispetto a che cosa? Ci sono forse uomini soprannumerari? Attenzione a non proiettare, poi, questa terminologia nelle fasi più difficili della vita. È un rischio quando la dignità dell’essere umano, anziché essere considerata in sé, viene posta in relazione al suo stato, alla sua condizione”.

Pare aprirsi, qui, una deriva eugenetica…
“C’è il rischio di non dare un valore profondo, assoluto alla vita, finendo per giudicare che ci siano vite non degne di essere vissute per le condizioni sociali, o di salute, o – perché no – economiche”.

La legge 194, nel suo titolo, richiama la “tutela”. Eppure, finora, è stata solo sinonimo di aborto. Non è forse il caso di rivedere e promuovere quegli effettivi meccanismi di tutela della maternità, e quindi anche del figlio?
“Se ci poniamo nell’impostazione della legge, che inizia con un richiamo alla protezione della vita, bisognerebbe davvero porre in atto tutti gli strumenti possibili di sostegno che escludano l’aborto praticato per ragioni ‘sociali’, di difficoltà della madre. La Costituzione impone un sostegno della maternità, e questo dovrebbe avere una dimensione concreta. Per coloro che parlano di libertà della donna, ricordiamo che siamo su un piano inclinato: la libertà di chi si trova – e viene lasciata – sola di fronte alle difficoltà non è un’effettiva libertà. Evitare che la donna resti sola con se stessa in un momento drammatico, come quando intraprende un aborto, non è compito di alcuni volontari, ma dev’essere un obbligo della società e dello Stato”.

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