RIVIERA – In questi giorni il mondo della scuola è in fermento: gli studenti occupano e esprimono le loro preoccupazioni, gli insegnanti rispondono al primo ministro Monti che li ha giudicati come elementi di freno alla modernizzazione e che non vogliono lavorare di più, altri aspiranti insegnati sono alle prese con il concorsone le cui prove di preselezione saranno il 17 e 18 dicembre…
Proprio martedì scorso a Londra, intanto è stata pubblicata un’importante ricerca realizzata da Pearson, il colosso mondiale dell’editoria didattica. Un dossier, intitolato The learning curve (La curva dell’apprendimento) e, volto a comparare i sistemi scolastici di 50 Paesi. In base a questo autorevole studio, le due nazioni con le migliori performance scolastiche risultano essere Finlandia e Corea del Sud (l’Italia è al ventiquattresimo posto: meglio della Francia e della Norvegia, peggio del Regno Unito e della Germania). In realtà, i sistemi scolastici di Finlandia e Corea del Sud sono molto diversi tra di loro. I due sistemi hanno però in comune alcuni elementi molto importanti: la valorizzazione del capitale umano degli insegnanti. Un capitale umano che non può essere sostituito da alcuna innovazione tecnologica. In che modo si valorizzano i docenti? Attraverso il riconoscimento diffuso del loro ruolo sociale, il rispetto che viene loro tributato (anche, ma non solo, attraverso stipendi adeguati al livello di un professionista), cospicui investimenti da parte dello Stato per formarli e aggiornarli continuamente. Di certo rimbrottarli a ogni occasione – come ha fatto il premier Monti domenica scorsa – non va in questa direzione.
Ecco che temi come: scuola occupata, autogestione, autonomia, futuro, riforme, reclutamento insegnanti, fondi… continuano a rincorrersi…
Vent’anni fa ormai anche noi occupavamo le scuole e sperimentavamo l’autogestione: ore di assemblee d’istituto e di classe, e alla fine anche qualche professore che stufo rispondeva in malo modo. Ricordo le infinite questioni sull’autonomia, che non si voleva, e il timore che essa avrebbe portato scuole di serie A e scuole di serie B… Poi si tornò a scuola e alla fine conserviamo il ricordo di studenti a scuola anche la notte (all’ITC, che frequentavo, relegati nella palestra in verità) e lo sperimentare l’organizzazione delle ore a scuola. E intanto la scuola è cambiata mille volte, mille riforme, senza mai cominciarne una per davvero per capire ciò che effettivamente funzionava o no. Ciò che riguarda il mondo della scuola e quindi della formazione non può essere pensato in un immediato rapporto di causa effetto, ma ha tempi lunghi. È sembrato invece che ogni nuovo ministro volesse abbinare il proprio nome a una cosiddetta “riforma”. E alla fine non c’è mai stato un progetto ad ampio respiro, una vera riforma, ma solo toppe su un vestito vecchio.
La scuola, l’educazione e la formazione delle generazioni, che sono il cardine della vita democratica, sociale e civile di un paese, non sono state mai seriamente affrontate in modo serio e disinteressato da coloro che hanno guidato la vita politica del paese, degli ultimi vent’anni almeno. La scuola, l’istruzione non possono essere merce di scambio politico, nel senso meno nobile del termine. Anzi devono essere il primo pensiero della politica, nel senso più alto che le se possa dare, se Paolo VI la considerava la più alta forma di carità. “L’educazione è per il futuro, non per il presente”, è una delle cinque lezioni indicate nel dossier della Pearson per chi si occupa di politica dell’educazione.
Sembra di vedere, però oggi, una convergenza in queste manifestazioni e occupazioni tra studenti, insegnanti e tutti coloro che hanno a cuore la scuola che, se non si lascerà ingannare e manipolare, potrà essere e fare davvero la differenza. Se non ci si lascerà coinvolgere in una guerra tra poveri, forse ci si potrà riappropriare della partecipazione democratica e della speranza del futuro.
Non sarà certo facile non cadere nella trappola della guerra tra poveri, basta pensare che tra una ventina di giorni più di trecentomila docenti o aspiranti tali, dovranno sostenere il famigerato “concorsone” per 11.000 posti circa in tutta Italia. Migliaia si sposteranno da una parte all’altra dell’Italia per sostenere una preselezione che se la passi forse ti chiameranno alla settimana enigmistica o a scrivere le domande dell’”Eredità”. E molti si ritroveranno dopo i TFA, dove, non si sa bene a chi e cosa ne abbiano fatto, si sono sborsati più di cento euro per sostenere i famigerati test di selezione, con le domande formulate già in modo errato in partenza. E già questo avrebbe presupposto la non sostenibilità dei risultati, ma si è andato avanti. E ora il concorso: con ricorsi al Tar in sospeso, con il Ministero che rincorre le modifiche al sistema per correggere errori. Mentre migliaia di aspiranti docenti di ruolo sono in questi giorni davanti al pc e al simulatore on line del ministero cercando il numero mancante di catena logica, il diagramma giusto di un insieme da fantasia, le x e y di equazioni senza le quali non potresti mai entrare in classe, serie di lettere e sillogismi per essere dei veri profiler con base a Quantico.
Un sistema di selezione ci deve pur essere, è chiaro, ma forse dopo anni di studio e anche di esperienze sul campo, non sarebbe più sensato dare l’abilitazione a tutti coloro che la vogliono, così come per altre categorie professionali, con una certificazione che certifichi, appunto i requisiti per essere insegnante. E avere poi la possibilità di spendersela per avere un posto nella misura in cui ci siano reali necessità, con concorsi, non ad eliminazione, ma che certifichino e valutino le conoscenze e le competenze adeguate al ruolo che si va a ricoprire.
Se si continua così, senza trovare una strada per come diventare insegnanti: non si può pensare che si possa restituire valore e autorevolezza, rispetto e riconoscimento a chi continua a vivere o scegliere questo lavoro con passione per la crescita umana, sociale e culturale delle nuove generazioni. Non si può pensare di coltivare la professionalità del docente in una relazione educativa capace di sinergie con tutte le altre realtà che educano: famiglia innanzitutto e della società.
Continuare a pensare la scuola in termini di efficientismo, risultati misurabili, di domanda offerta, non porterà a una vera riforma. Bisognerebbe restituire alla scuola “il compito di trasmettere il patrimonio culturale elaborato nel passato, aiutare a leggere il presente, far acquisire le competenze per costruire il futuro, concorrere, mediante lo studio e la formazione di una coscienza critica, alla formazione del cittadino e alla crescita del senso del bene comune. La forte domanda di conoscenze e di capacità professionali e i rapidi cambiamenti economici e produttivi inducono spesso a promuovere un sistema efficiente più nel dare istruzioni sul “come fare” che sul senso delle scelte di vita e sul “chi essere”. (Orientamenti Pastorali Cei, “Educare alla vita buona del Vangelo” n. 46).
E allora… allora forse è bene capire in questo momento quali forme di protesta vadano fatte e verso chi, per evitare strumentalizzazioni, e ancora prima di tutto quale informazione c’è realmente intorno alla scuola, da qui allora quali vie percorrere per portare avanti, non semplicemente proteste, ma proposte. Ci auguriamo che le occasioni di occupazione, manifestazioni e autogestione di questi giorni siano lo spazio per la costruzione di una riflessione ampia e partecipata che riguarda non l’ora che viviamo ma il futuro, che sappiano trovare modi dialogici, che non fermino l’attività educativa e formativa della scuola, ma siano orientati al bene comune.