SIERRA LEONE – È soddisfatto mons. Gianfranco Biguzzi, vescovo emerito di Makeni, per la buona riuscita del voto dello scorso 17 novembre in Sierra Leone. “I trecento osservatori internazionali presenti per monitorare il voto non hanno ravvisato particolari irregolarità”, racconta al Sir il vescovo, che ha da pochi mesi lasciato l’Africa dopo aver guidato, per 25 anni, una diocesi che copre quasi interamente la parte nord del Paese. Un lungo ministero segnato dalla guerra civile che ha devastato il Paese dal 1991 al 2002, quando il presidente Kabbah dichiarò ufficialmente conclusa la guerra. Un conflitto, costato la vita a circa 50 mila persone e che ha visto l’arruolamento di migliaia di bambini soldato. Il presidente Ernest Bai Koroma si è riconfermato con il 58.7 per cento dei voti, davanti allo sfidante Julius Maada Bio (37,4 per cento) che ha denunciato irregolarità. A premiare il presidente rieletto – secondo alcuni osservatori – sono stati i progressi fatti nel campo delle infrastrutture e della crescita economica (più 6% del Pil nel 2011). Per cercare di fare il punto sulla situazione, il Sir ha intervistato mons. Biguzzi.
“La speranza c’era perché sapevamo che le cause del conflitto non erano né di carattere religioso, né etnico, bensì sociali”.
Quella in Sierra Leone è da molti conosciuta come la guerra dei diamanti. Sono stati realmente i diamanti la causa del conflitto?
“I diamanti hanno avuto certamente un ruolo nell’alimentare il conflitto. Infatti, la prima cosa che hanno fatto i ribelli è stata prendere il controllo delle aree diamantifere grazie alla collaborazione degli Stati vicini e delle reti internazionali. Ma non credo sia stata questa la causa scatenante: negli anni Ottanta la Sierra Leone era un Paese crollato a causa della corruzione e del malaffare. Ricordo che, allora, nelle città non si trovava la benzina, i dipendenti statali non ricevevano salario, l’esercito era allo sbando. In una situazione come questa è bastata la comparsa di alcuni personaggi con un po’ di carisma per destabilizzare il Paese”.
Qual è stata la sfida più grande nel cammino di pace?
“Al momento della firma degli accordi non erano solo le istituzioni e le infrastrutture a dover essere ricostruite ma le comunità. Prima di tutto si è cercato di disarmare i combattenti e favorire il ritorno nei villaggi: sono stati creati grandi centri dove potevano frequentare dei corsi di formazione al termine dei quali veniva dato loro il necessario per avviare un’attività. Si è poi cercato di favorire subito il rientro dei bambini combattenti nelle famiglie. Poi vi è stato il lavoro della Commissione verità e riconciliazione che ha girato per tutto il Paese. Qui i carnefici – che hanno potuto contare su una legge di amnistia (non applicata ai capi) – potevano denunciare e chiedere perdono per i crimini commessi, spesso anche attraverso riti di purificazione tradizionali”.
Qual è stato il ruolo della Chiesa?
“Pur essendo i cristiani una realtà minoritaria (il 20% della popolazione di cui solo il 5% sono cattolici) la Chiesa ha giocato e continua a giocare un ruolo importante soprattutto in campo sociale. Durante la guerra ho fatto parte del Consiglio interreligioso che ha svolto un’intensa attività negoziale a livello nazionale e internazionale. Oggi l’impegno è soprattutto nel campo della formazione, basti pensare che il 40% delle scuole è legato alle diocesi o a istituti religiosi. A Makeni abbiamo avviato anche la prima università privata della Sierra Leone dove si svolgono corsi di buon governo che prendono spunto dalla dottrina sociale della Chiesa. Vi partecipano non solo cristiani ma anche capi tradizionali e funzionari di tutte le Confessioni”.
Guardando alla realtà del Paese. Gli indicatori macroeconomici indicano dei miglioramenti…
“La Sierra Leone è un cantiere aperto: sono state costruire strade e scuole, è stata estesa la rete elettrica. Certo resta la corruzione così come altri problemi sociali a partire dalla disoccupazione. Negli ultimi anni sono cresciuti gli investimenti d’imprese non solo dei Paesi europei e degli Usa, ma di Cina, India, Sudafrica e Paesi del Golfo. Questo è un aspetto positivo, ma bisogna evitare le zone d’ombra. Vicino a Makeni, ad esempio, è stato avviato un grande progetto per la produzione dell’etanolo, ma questo ha tolto terra ai contadini locali e non produce benefici per le comunità locali”.
La Sierra Leone è lontana dalla Nigeria e dal Mali, Paesi che stanno sperimentando il rischio dell’integralismo islamico.
“Devo dire che siamo lontani ma non così tanto perché in Sierra Leone c’è una grande presenza di cittadini nigeriani. Le relazioni tra musulmani (il 60% della popolazione) e cristiani restano buone, ma ho notato negli ultimi anni un’accentuazione della religione come elemento identitario. Questo è dovuto in parte alla presenza di musulmani inviati dal Pakistan e dai Paesi del Golfo che hanno una visione più rigida dell’Islam. Spero che questo non sfoci un giorno nel fondamentalismo”.