ITALIA – Mai così alta la percentuale dei giovani senza lavoro: il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 37,1%, secondo quanto comunica l’Istat riferendosi allo scorso novembre, con un incremento di 5 punti in un anno. All’indomani della diffusione del dato il Sir riflette su problemi e possibilità di rilancio dell’occupazione giovanile con Alberto Quadrio Curzio, economista e docente emerito all’Università Cattolica di Milano.
Siamo davanti a un record negativo…
“La preoccupazione è evidente, anche perché nell’ultimo anno si è registrato un incremento impressionante – di 5 punti percentuali – dei giovani disoccupati. Inoltre dobbiamo considerare pure gli ‘scoraggiati’, i cosiddetti neet (dall’inglese ‘Not in education, employment or training’, ovvero che non studiano, né lavorano, né cercano attivamente un’occupazione, ndr), che ritengo costituiscano almeno un 10-15% della popolazione giovanile, configurando una condizione complessivamente allarmante”.
Quali sono le cause di quest’incremento della disoccupazione giovanile?
“Vi è certamente una grossa componente legata alla crisi internazionale, alla recessione nell’Ue e, in particolare, a quella italiana. In secondo luogo negli anni passati non ci si è curati a sufficienza dei rapporti tra formazione e lavoro. Su questo l’Italia è stata carente e il continuo avvicendarsi di ministri dell’Istruzione, Università e Ricerca, ciascuno dei quali ha proposto una riforma sconvolgendo assetti non necessariamente negativi, ha creato confusione, disorientamento e sfiducia. Inoltre, non si è tenuto conto che in Italia – come peraltro in Germania, dove sono state adottate politiche molto diverse nella formazione – andavano crescendo le domande per quelle professionalità ‘tecniche’ intermedie tra la scuola secondaria superiore e l’università: dagli infermieri ai tecnici industriali… Si è vista chiaramente una divaricazione tra la crescente domanda del sistema produttivo e l’offerta, in calo”.
C’è anche una tendenza dei giovani a rifiutare certe professionalità e scegliere indiscriminatamente l’università?
“Molti giovani ritengo non siano stati adeguatamente informati sulla tipologia di queste scuole o processi formativi e sull’attività lavorativa che ne consegue. Per la maggior parte sono indirizzati verso due tipologie formative – il liceo classico e scientifico – che sono certamente importanti, ma non omnicomprensive. Ricordo che, in passato, molti diplomati provenienti dagli istituti tecnici s’iscrivevano all’università con ottimi risultati. D’altra parte, però, se non volevano proseguire gli studi con quel diploma trovavano rapidamente lavoro, perché avevano una formazione funzionale alla produzione. In Germania i 2/3 degli studenti oltre i 16 anni vanno in questo tipo di scuole: alcuni proseguono gli studi all’università, altri no ed entrano nell’attività lavorativa, che però comprende periodicamente intervalli formativi, di aggiornamento. Il confronto tra Italia e Germania è eclatante perché le due economie non sono dissimili, ma lì il tasso di disoccupazione giovanile è al 10%”.
In che modo è possibile intervenire per ricostruire un rapporto efficace tra giovani e lavoro?
“Bisogna ripensare i percorsi formativi ed evitare innovazioni estemporanee. Occorre piuttosto offrire percorsi d’istruzione con formazione professionale utili, da un lato, per favorire il passaggio dalla scuola al lavoro e, dall’altro, per evitare gli abbandoni da parte di studenti non portati a un’istruzione strettamente scolastica. Al riguardo il sistema duale tedesco combina istruzione scolastica con apprendistato in una coniugazione virtuosa. Inoltre va previsto un sistematico tutorato informativo, sia durante l’iter scolastico obbligatorio sia nelle scelte d’istruzione o formazione professionale con riferimento alla domanda di lavoro nei diversi contesti territoriali. Purtroppo, invece, all’istruzione tecnica si attribuisce a torto una valenza residuale”.
E cosa va fatto, invece, per rilanciare l’occupazione?
“Occorre rilanciare lo sviluppo, senza il quale non riparte l’occupazione. L’Europa – e, in ciò, l’Italia può fare da sprone – non si può limitare a perseguire il rigore di bilancio, ma deve promuovere azioni per la crescita economica se vuole adempiere pienamente alla propria missione. L’Italia, da parte sua, deve ridurre la spesa corrente e trasferire una parte di risorse pubbliche alla spesa per investimenti, soprattutto infrastrutturali, importantissimi perché creano lavoro con effetti moltiplicativi. Infine i giovani devono capire che, nella vita, non si può ottenere subito il lavoro che corrisponde ai propri desideri”.
A suo avviso, la riforma Fornero e i limiti posti al precariato incidono sulla percentuale dei giovani disoccupati?
“In una certa misura penso di sì, laddove molti contratti a progetto non sono stati rinnovati nel timore di dover stabilizzare il lavoratore”.
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