SIRIA – Una settimana in Siria, nella città di Aleppo. È la guerra vista da un medico,Mohamed Nour Dachan, delegato per l’Italia del Consiglio nazionale siriano che da 38 anni vive ed opera nel nostro Paese. È tornato nella sua terra di origine. È riuscito ad entrare via terra, con ambulanze ed aiuti umanitari. Il racconto del viaggio è stato raccolto da sua figlia Asmae Dachan, giornalista e scrittrice, che l’ha concesso al Sir. “Non possono sacrificare vite umane – dice al Sir Mohamed Nour Dachan – agli equilibri internazionali. Noi ringraziamo il Santo Padre per gli appelli a fermare i massacri in Siria ma a questo richiama la comunità internazionale deve far seguire interventi che dimostrino la volontà di intraprendere questa strada”.
“Sono partito per la Siria mercoledì 26 dicembre; erano oltre 38 anni che non tornavo in quella che è la terra delle mie origini. Ero perfettamente consapevole di andare verso un Paese dilaniato da oltre 21 mesi di sanguinaria repressione; immaginavo le scene di distruzione e morte che avrei avuto davanti agli occhi, i cumuli di macerie, le case, le scuole, i luoghi di culto devastati dagli incessanti bombardamenti. Mi ero preparato a vedere una Siria diversa da come l’avevo lasciata, non certo per via di un terremoto o una catastrofe naturale, ma per l’operato del regime criminale di Assad. Ero già stato in missione umanitaria diverse volte: in Bosnia, in Kosovo, in Iraq, ma questa volta sentivo che sarebbe stato diverso, perché in un certo senso tornavo a casa. Oltre al progetto umanitario (come delegato del Cns, Consiglio nazionale siriano, e come medico, avevo programmato di visitare diversi ospedali), avevo anche un desiderio personale: andare a salutare i miei genitori al camposanto, vedere il luogo dove sono sepolti, poi tornare al quartiere dove sono nato e cresciuto…
Arrivato in Siria, ad Aleppo, ho visto scene davvero drammatiche: interi quartieri rasi al suolo, ospedali distrutti, scantinati adibiti a ospedali da campo, medici e infermieri a lavorare ininterrottamente, senza ricevere alcun compenso, senza mezzi adeguati per affrontare le proporzioni di un’emergenza sanitaria senza precedenti. Il giorno stesso in cui sono arrivato c’erano state tre diverse stragi in città e il bombardamento è proseguito per tutta la giornata, con numerosi morti e feriti.
Ogni giorno arrivano decine e decine di feriti dopo ogni bombardamento e spesso i colleghi non riescono a operare perché non ne hanno i mezzi; non ci sono farmaci, né strumentazioni adeguate. Le persone che muoiono nel tragitto verso i luoghi di cura, vengono portate via dai familiari, che cercano di dare loro immediata sepoltura. In uno degli ospedali che ho visitato erano appena arrivati i feriti di un bombardamento: tra di loro, seduti uno vicino all’altro, 6 bambini della stessa famiglia. Non ci sono parole per descrivere la loro sofferenza, la paura, il dolore che ho letto nei loro occhi. Un’intera generazione forzata a crescere prima del tempo, privata della sua spensieratezza e dei suoi diritti primari, costretta a guardare la morte in faccia, a convivere con la paura, il terrore, le bombe, i cecchini… Un’intera generazione che non va a scuola, non ha cibo sufficiente, non riceve cure, patisce il freddo…
Anche i giovani non vivono più la loro vita e sono impegnati per cercare di aiutare le famiglie più in difficoltà. Anche loro sono cresciuti prima del tempo, ma con il loro entusiasmo e la loro determinazione continuano a guardare fiduciosi al futuro, alla fine del regime e alla rinascita della Siria. Nelle mie intenzioni volevo portare speranza a questi nostri fratelli, infondere loro coraggio, ma sono stati loro, con il loro impegno, la loro motivazione, la dignità e la solidarietà gli uni con gli altri, a dare a me una nuova motivazione per andare avanti e impegnarmi per la libertà in Siria. Non bisogna dimenticare che sono stati proprio i giovani, con le loro manifestazioni pacifiche, i loro cori, le loro iniziative, ad accendere la rivolta contro il regime siriano.
Ho fatto ritorno in Italia il 1 gennaio; non ho visitato la tomba dei miei genitori, non ho fatto visita ai parenti, né visto il mio vecchio quartiere; il senso del dovere è stato più forte della nostalgia e al ritorno non ho fatto altro che pensare al da farsi: comprare subito nuove ambulanze da portare giù in Siria, con tanto di strumentazioni e medicinali e organizzare la prossima spedizione umanitaria. Arrivato in Italia mi sono rimesso subito al lavoro e solo quando mi sono immerso nuovamente nel quotidiano, mi sono reso conto che avevo rivisto la Siria dopo ben 38 anni, che ero andato vicinissimo ai luoghi dei miei affetti, senza poterli visitare, per la presenza di cecchini e uomini dell’esercito in quelle zone. Una rinuncia dolorosa la mia, ma il dolore più grande è stato guardare negli occhi la sofferenza di tutti i bambini, le donne, i giovani e gli anziani che dignitosamente stanno resistendo contro un regime spietato”.