ROSARNO – “Chi lascia la propria terra lo fa perché cerca un futuro migliore”. Quando papa Benedetto XVI ha pronunciato queste parole all’Angelus di ieri, ricordando la 99ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, mi è sembrato di risentire la storia di Mohammed, i racconti di Louis, migranti che vivono nelle nuove favelas italiane, fatte di lamiera, eternit e baracche di fortuna. Ce n’è una grossa nella zona tra Rosarno e San Ferdinando, in Calabria, dove migliaia di loro stanno assiepati in condizioni miserevoli. Non sono per niente felici. Basta attraversarne una e vedi volti rassegnati, uomini abbandonati a se stessi. Più che di un pellegrinaggio si tratta di una Via Crucis di uomini senza dignità. Dovremmo ancora gridare “Ecce Homo”, ma di Pilato molte volte ne sappiamo imitare solo l’ignavia, lavandoci le mani della vita dell’altro.
“Invece di un pellegrinaggio – ha scritto infatti il Papa nel messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato – animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa un ‘calvario’ per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda”. Queste parole di Benedetto XVI sono tremendamente visibili nella terra calabrese, fra le colline della Piana.
Eppure si tratta di persone che vivono nel totale abbandono, di fratelli che hanno attraversato il mare, hanno cercato le coste della speranza, così come fecero tanti italiani, tanti calabresi che cercarono “l’America”.
L’America era il sogno e la speranza; da qui si partiva con la valigia di cartone, si attraversava l’Oceano e dopo venti, trenta giorni di traversata iniziava una storia nuova, si riaccendeva una fiammella di speranza. In Calabria per molti migranti non è così: c’è delusione e amarezza, c’è sfruttamento e povertà, c’è anche poco lavoro. Tutto questo unito a un disinteresse alimentato da promesse e lunghi silenzi, da politiche di respingimenti, espulsioni o interventi fatti con la forza per demolire quei monumenti della vergogna. Demolizioni che arrivano non per risolvere ma per rimuovere quel fastidio psicologico che ricorda una presenza fatta di qualche tavola raccattata qua e là e coperta con teli di fortuna.
Un anno fa l’iniziativa del Governo, con tanto d’inaugurazione di un campo modello per circa trecento persone; un intervento in emergenza, dopo i fatti di Rosarno, poi più nulla. Finiti i finanziamenti è ritornato il buio. I sindaci lanciano appelli, la Chiesa fa sentire la sua voce, stanzia qualche fondo dell’8xmille, poi di nuovo il silenzio, mentre i numeri continuano a crescere.
Il vescovo di Oppido, mons. Francesco Milito, per il Natale ha preso carta e penna e ha scritto una lettera alla diocesi, ai cittadini e alle istituzioni della Piana: “Come lasciare dei fratelli in baracche di fortuna dove c’è sete, fame, nudità e anche malattie? Come restare indifferenti di fronte a tale grave situazione?”.
I migranti, intanto, sono attratti da quella misera paga di 25 euro al giorno e, quindi, tornano ancora più numerosi nella Piana calabrese per mettere da parte qualche soldo da inviare ai familiari che stanno come loro o peggio di loro.
Hanno lasciato le loro case, le loro famiglie, per inseguire un sogno: la possibilità di un futuro, non di un futuro migliore. Dalle loro parti questa parola è stata finanche cancellata dal vocabolario. Ma poi, tanti di loro, intercettati su gommoni e barche della fortuna, vengono assiepati nei centri di accoglienza.
Altri vivono di espedienti, sono raggiunti solo dalla solidarietà di chi si lascia toccare il cuore.
Mille e più migranti, nella sola Rosarno, sono stati assoldati quest’anno per la raccolta delle arance e altri arriveranno a popolare le nuove favelas per pochi spiccioli.
Come Abramo sono partiti, fidandosi di Dio, del loro Dio, quello nel quale credono, ma molti di loro non si fideranno più dell’uomo, quello che doveva essere fratello e molte volte si rivela Caino, disinteressato sfruttatore o anche disturbato da chi gli chiede conto di come ha custodito Abele.