ITALIA – Tra 8,3 e 13 miliardi di euro all’anno: a tanto ammontano in Italia i ricavi delle organizzazioni mafiose che costituiscono solo una parte, seppur importante, del fatturato complessivo delle attività illegali, stimato in 25,7 miliardi di euro (l’1,7% del Pil). A guidare la classifica sono camorra con 3,75 miliardi e ‘ndrangheta (3,49), che da sole raccolgono quasi il 70% dei ricavi, seguite da “cosa nostra” (1,87) e dalla criminalità organizzata pugliese (1,12). L’attività illecita più redditizia è la commercializzazione della droga che frutta quasi 8 miliardi di euro all’anno, seguita da estorsioni (4,7), sfruttamento sessuale (4,66) e contraffazione (4,54). È fatto di sementite (alcune) e conferme (tante) il Rapporto “Gli investimenti delle mafie”, presentato questa mattina all’Università Cattolica di Milano da “Transcrime”, il Centro di ricerca dell’Ateneo sulla criminalità organizzata. Un Rapporto frutto di un lavoro durato due anni, nato dalla collaborazione con il Ministero dell’Interno che ne ha finanziato la realizzazione insieme alla Commissione europea, all’interno del Pon (Programma operativo nazionale) sicurezza.
Non è la prima industria del Paese. “Le cifre fornite dal Rapporto – spiega Ernesto Savona, direttore del Centro di ricerca – sono considerevoli, ma restano ben lontane dai pettegolezzi spesso riportati dalla stampa (si è arrivati a parlare anche di 150 miliardi di euro di fatturato delle mafie in Italia, ndr). Questo non significa sottovalutare il ricavo delle mafie (pari a circa lo 0,6% del Pil), ma dire con forza che le mafie non sono la prima industria del Paese e che, anche nelle zone ad alta incidenza di criminalità organizzata, c’è dell’altro”. Il Rapporto è stato costruito analizzando vari fattori come l’incidenza di omicidi o attentati di stampo mafioso, il numero delle persone denunciate, la presenza di amministrazioni sciolte per infiltrazioni e il numero di beni confiscati (quasi 20mila dal 1983, tra immobili, mobili e aziende).
Le zone d’ombra. Parlare di mafie e d’investimenti significa, però, muoversi in un universo nebuloso dove le zone d’ombra sono spesso più numerose di quelle di luce. Soprattutto quando si guarda alle attività legali controllate dalla criminalità: un dato difficile da valutare se non dopo l’intervento della magistratura. Ne è consapevole lo stesso Savona che precisa: “Non siamo convinti che questa sia la fotografia reale e certa della presenza attuale dei gruppi criminali nel nostro Paese, anche perché la mobilità delle organizzazioni è elevata. Ma questa indagine, prima nel nostro Paese, può servire a orientare l’attività delle Forze dell’ordine e ci permette di calcolare il rischio d’infiltrazione sia per territorio sia per settore”. Come conferma il prefetto Alessandro Marangoni, vicedirettore generale della pubblica sicurezza, che pur ammettendo la presenza di zone ancora oscure, afferma come sia una base importante su cui lavorare.
I settori più coinvolti. Per quanto riguarda le infiltrazioni in aziende, edilizia, movimento terra e settore turistico (alberghi e ristoranti), si confermano i settori economici più vulnerabili insieme agli investimenti in immobili di varia natura. Dal Rapporto precisa però Savona, i “mafiosi non appaiono come grandi imprenditori perché a parità di azienda le imprese legali tendono a essere più profittevoli”. Un’osservazione a cui il sottosegretario all’Interno, Carlo De Stefano, prova a dare una risposta: “Nel contesto mafioso il consenso sociale è prevalente rispetto alla redditività. Al mafioso non interessa tanto massimizzare il profitto quanto rafforzare la presenza sul territorio e utilizzare l’impresa per altri fini”. Tra questi il riciclaggio di denaro, l’assunzione come scambio di favori e il ricatto politico.
La presenza al Nord. Il Rapporto conferma, invece, senza ombra di dubbio come il fenomeno della criminalità organizzata sia a tutti gli effetti una realtà nazionale. Questo vale in particolare per l’‘ndrangheta che – esclusa la Calabria – ha in Piemonte e Lombardia le prime due Regioni per investimenti, ricavando rispettivamente il 21% e il 16% del totale; seguono Emilia Romagna, Lazio e Liguria. A essere in crescita è anche la presenza di organizzazioni provenienti da altri Paesi. “La differenza tra i 27 miliardi di ricavi da attività illecite e i 13 attribuiti alle mafie prese in esame – spiega Savona – è da attribuire a un sistema eterogeneo di soggetti criminali che vanno dal singolo ladro o truffatore, alle piccole associazioni criminali fino alle mafie degli altri Paesi. Penso, ad esempio, alla crescita degli investimenti della mafia cinese, ma sono realtà non analizzate dal Rapporto e difficili da stimare”.
Un progetto europeo. Secondo il direttore di “Transcrime”, quello di oggi rappresenta solo “un primo gradino” di una scala ancora lunga. “La costituzione di questo modello – conclude – rappresenta, però, un passo importante dal punto di vista metodologico. Non a caso domani daremo il via a un progetto europeo, finanziato dall’Ue, che vedrà applicare questo stesso modello in Francia, Finlandia, Irlanda, Regno Unito, Spagna e Olanda. Bisogna evitare di cadere nell’errore che si è fatto per anni in Italia: di fronte ai morti per mafia si è scelto di pensare solo alla sicurezza dimenticando le componenti economiche, ma dobbiamo tenere presente che quando il denaro illegale entra nel mercato legale è ormai troppo tardi”.