No al rischio “paralisi”. Il “rattrappimento che viene dalla paura di osare, dallo scoraggiamento per le delusioni esistenziali e pastorali, dalla depressione per un paesaggio culturale ed etico plumbeo e senza speranza, per il carico di problemi che la gente attorno a noi e i media ci rovesciano addosso giorno dopo giorno in quantità inverosimile”. Sono tutte “forme di paralisi” che minacciano “la condizione delle persone religiose non meno delle altre”. A parlarne è stato mons. Mariano Crociata, segretario generale della Cei, nell’omelia della messa celebrata il 23 gennaio. “Bisogna ricominciare dal prendersi cura della fede dei fratelli”, ha detto ai preti mons. Crociata: “Bisogna che impariamo a notare attorno a noi, come Gesù, le mani paralizzate che attendono di essere distese da una presenza, un gesto, una parola che allarghi il cuore e lo disponga a nuove relazioni di fiducia in Dio e di fraternità”. Visto così, il sacerdozio diventa “efficace presenza divina dentro una genuina umanità”: “Tutt’altro che qualcosa di clericale”, ha concluso mons. Crociata.
L’era digitale e la “coeducazione”. “L’era digitale sollecita a ripensare l’educazione come coeducazione”. Ne è convintaChiara Giaccardi, docente di sociologia e antropologia dei media all’Università Cattolica, secondo la quale tra preti e laici il “rischio” è che i laici “ritengono il prete lontano, fuori dal mondo, membro di un’istituzione di cui si fatica a capire il senso”, ma anche che i preti “faticano a riconoscere i laici come interlocutori adulti, come fratelli, e non semplicemente come figli mai cresciuti abbastanza”. L’alternativa, per la sociologa, “non è perdere l’autorevolezza cancellando le differenze, ma rafforzare la reciprocità mantenendo le specificità. Una reciprocità asimmetrica, fatta di vincoli e assunzioni di responsabilità, pur nella non equivalenza dei ruoli e nel rispetto dei diversi ambiti di competenza ed esperienza”. L’era digitale, dunque, “sollecita a ripensare l’educazione come coeducazione, a valorizzare la partecipazione, a trovare con creatività nuovi modi di coinvolgimento e annuncio”.
L’apertura all’umano. “Un prete rimane un innamorato di Gesù”, ed è la sua “umanità” lo strumento grazie al quale egli “abbraccia ogni singolo uomo, in qualunque suo bisogno, prima di ogni valutazione culturale o etica, senza riserva alcuna”. Lo ha detto don Paolo Asolan, docente di teologia pastorale alla Pontificia Università Lateranense. “Diventare adulti tra adulti, anche per un prete – ha esordito – significa saper vivere una fede che si è fatta carità, amore come dono di sé. Per un prete, cioè significa diventare padre”. Ma in cosa consiste la “paternità” di un sacerdote? “Per diventare padri – ha risposto il teologo – occorre recuperare la consapevolezza che l’atto di amore manifesta, per se stesso, l’accadere di un’umanità, di una fiducia in Gesù Cristo e di un amore appassionato a Lui, che sfida l’attuale modello dominante”. “In forza di questa peculiare e universale apertura all’umano – ha proseguito – un pastore sa di poter essere abilitato a incontrare ogni uomo, ogni condizione di vita, ogni circostanza sociale, sfidando ogni riserva, pregiudizio e ostilità”.
“Prendere sul serio” anche la politica. “L’etica cristiana deve prendere sul serio la realtà penultima rispetto all’ultima. Ciò comporta una libera assunzione di responsabilità, anche di quella politica, per preparare il terreno alla generazione a venire”. Così mons. Ignazio Sanna, arcivescovo di Oristano, che ha citato Dietrich Bonhoeffer per affermare che “chi ha veramente a cuore la causa di Dio non può contrapporla alla causa del mondo. Al contrario, l’amore di Dio deve spingere all’amore del mondo”. No, dunque, al “Dio tappabuchi”: “L’uomo deve imparare a cavarsela da solo, ad assumersi la piena responsabilità della storia”. “Il cristiano adulto, proprio perché adulto – ha spiegato il vescovo – ha sempre bisogno di Dio, anche se nella concretezza della sua esistenza deve agire sempre come se Dio non ci fosse”.