Nel Paese si respira aria di tensione con sostenitori di candidati sconfitti che, a Mafraq, hanno bloccato strade e bruciato copertoni. Proteste anche nelle città di Maan e di Aqaba. Alta l’affluenza alle urne: la Commissione elettorale indipendente ha fatto sapere che ha votato 1,23 milioni di elettori, pari al 56,69% degli aventi diritto (2,3 milioni). Un dato che indicherebbe il mancato successo del boicottaggio voluto dai Fratelli Musulmani. Il movimento islamico ha denunciato brogli, in qualche misura smentiti dalla delegazione di osservatori internazionali coordinata dall’Istituto nazionale democratico (Ndi) degli Stati Uniti che ha sottolineato “un notevole progresso nelle procedure e nella gestione della consultazione”.
Forte del risultato, il re Abdallah II ha parlato di “determinazione dei giordani a partecipare alla vita politica e al processo decisionale ponendo le basi per una nuova fase nella storia del Paese”. La Giordania, ha detto il re, “proseguirà con le riforme nella loro dimensione politica, economica e sociale per garantire un futuro migliore a tutti i cittadini”. Daniele Rocchi, per il Sir, ha chiesto un commento sul voto a Riccardo Redaelli, docente di geopolitica all’Università Cattolica di Milano.
Alla luce dei risultati, anche se non definitivi, come giudica il voto in Giordania?
“Un voto per la stabilità, per mantenere la situazione attuale. I giordani non sono soddisfatti delle condizioni sociali ed economiche in cui versa il loro Paese. Tuttavia, alla luce delle vicende in corso nei Paesi confinanti, e visto che i forti cambiamenti in Nord Africa non stanno dando risultati brillanti, hanno scelto la strada prudente delle riforme limitate, intrapresa dalla casa reale. Hanno capito che questo non era il momento per grandi stravolgimenti e cambiamenti. Dalle urne è emerso il consenso alla piattaforma politica del re e una presa di distanza dall’agenda politica islamista”.
Più che di consenso si potrebbe parlare di paura del cambiamento?
“Ricordiamo che il regno hashemita sta pagando il prezzo maggiore delle crisi dei suoi vicini, Siria e Iraq. Dentro il suo territorio sono giunti milioni di profughi e rifugiati, e anche di jhiadisti e guerriglieri. La Giordania ha scelto di guardare alla casa reale e alla sua linea politica prudente come l’unica strada praticabile, almeno in questa fase”.
Qual è stato il dato più significativo di questa tornata elettorale?
“Indubbiamente la notevole affluenza alle urne. Secondo la Commissione elettorale indipendente, infatti, ha votato il 56,69% degli aventi diritto. Un dato che indicherebbe la sconfitta di tutti quei movimenti e partiti che chiedevano il boicottaggio del voto, in primis i Fratelli Musulmani”.
Cosa accadrà adesso in Giordania?
“Con la sostanziale sconfitta di chi chiedeva il boicottaggio, ovvero dei Fratelli musulmani e la conferma di un’assemblea parlamentare vicina al re, la Giordania incassa un forte sostegno politico, economico e finanziario da parte della comunità internazionale. Questa sa bene di aver bisogno di un Paese privo di particolari tensioni per usarlo come base di stabilizzazione per gestire tutti i programmi di aiuto ai profughi e rifugiati che ospita. Con questo voto la Giordania conferma di volere essere un’isola di stabilità in un Medio Oriente dilaniato da tensioni”.
Ora il re per la nomina del premier dovrà prima consultarsi con i deputati, una novità introdotta dalla riforma costituzionale…
“Abdallah non aveva mai nominato il primo ministro senza consultarsi, tuttavia è positivo che questa prassi sia diventata un principio costituzionale, seppur limitato e anche contrastato da diversi gruppi e movimenti politici che non lo ritengono ancora sufficiente. Si tratta di un piccolo passo per trasformare la monarchia attuale in una vera monarchia costituzionale. Il voto del 23 gennaio conferma la volontà popolare di una lenta e prudente transizione”.