Usiamo la maiuscola perché le “regole di buon funzionamento della casa” sono diventate sempre più norme etiche, di un’etica che privilegia il profitto a scapito dell’uomo.
E allora ben venga quel passaggio che il card. Bagnasco ha dedicato alla cosiddetta bioeconomia nella sua recente prolusione, insomma a un’economia che metta l’etica della vita nuovamente in primo piano. Non solo a parole, ma con fatti che intacchino quell’individualismo su cui poggia l’attuale modello oramai imperante in ogni dove.
Abbiamo tutti accettato (perfino i comunisti cinesi) le regole del libero mercato, le migliori per coniugare sviluppo economico con progresso sociale. Ma certe declinazioni del libero mercato sembrano tendere al profitto quale unico obiettivo; privilegiare il denaro che frutta denaro, a qualsiasi costo. E così non va bene, ce ne stiamo accorgendo sempre più chiaramente in questi anni di crisi globalizzata.
Non va bene considerare la persona umana semplicemente come un fattore di produzione, un costo da comprimere o tagliare a servizio del raggiungimento di un profitto; non va bene disinteressarsi degli effetti che la corsa all’arricchimento ha sulle persone, addirittura su interi popoli; non va bene dimenticare i valori della solidarietà, della tutela dei più deboli. Non va bene dimenticare le potenzialità che le politiche economiche hanno (si pensi al fisco) sulla famiglia, ad esempio. O sulla natalità.
Non va bene perché ne avvertiamo sulla pelle, giorno dopo giorno, le conseguenze negative. E se non vanno bene tutte queste cose, allora vediamo in positivo su cosa puntare la nostra attenzione e i nostri sforzi. Perché le alternative ci sono.
C’è un modo di stare nel libero mercato che guarda anzitutto alla persona più che al profitto, senza dimenticarsi dello stesso: si guardi alle cooperative e al loro modo di lavorare. Sono state le uniche realtà a non licenziare, anzi ad accrescere un po’ l’occupazione in questi ultimi anni, sacrificando magari l’utile aziendale; non delocalizzano all’estero, non sfruttano le persone che vivono in un altro Paese appunto per guadagnare di più; non impoveriscono così il territorio che le ha fatte crescere.
C’è una fetta di mondo finanziario (si pensi alle banche di credito cooperativo) che hanno scelto di lavorare fianco a fianco dei clienti, più che ad inventare fanta-finanza per far esplodere gli utili. Magari guadagnando poco, ma senza avere problemi con il Codice civile, o penale.
Ma in generale in tutte le aziende si deve prestare attenzione non solo al salario dato al lavoratore, e al profitto dell’imprenditore. Ci sono modalità di lavoro che valorizzano la persona umana, altre che la snaturano, la deresponsabilizzano, la alienano; ci sono comportamenti che rispettano, anzi promuovono il vivere sociale; che tutelano le esigenze familiari, le prospettive di vita.
Esempi? Infiniti. Dalle modalità in cui si svolgono i cicli produttivi (si pensi per esempio agli orari), ai rapporti con la proprietà fino al coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’azienda; dalla creazione di strutture interne o di servizi che vengano incontro alle persone (asili nido, aiuti alle mamme, welfare aziendale), alla flessibilità che fa conciliare esigenze differenti, fino alla lotta a una precarizzazione che è solo sfruttamento indiscriminato.
E non vogliamo dimenticarci di una fetta di economia tanto negletta dagli aedi del Pil, quanto fondamentale per il vivere umano: quel Terzo settore che già qualificarlo come terzo (dopo i privati e lo Stato) fa capire l’ordine d’importanza che gli si dà. Non genera (grandi) profitti sul capitale monetario investito, ma enormi profitti sul “capitale umano” di cui si occupa: istruzione, formazione, sanità, cura degli anziani, dei disabili, di chi è in condizioni di disagio. Non è un tappabuchi – anche se troppo spesso in Italia viene così delimitato – ma il cemento di una società che potrà competere sul Pil solo se ha tutti i mattoni messi nel modo giusto. Una società di persone, non di consumatori o di “fattori di produzione”.