No alla “retorica delle differenze”. Un netto “no” alla “retorica delle differenze”, per cui “qualunque differenza è per se stessa un valore” oppure, all’opposto, “le differenze sono dei disvalori, e quindi bisogna omologare”. Nel pronunciarlo, il card. Bagnasco ha stigmatizzato la politica del “due pesi e due misure”, auspicando “una riflessione più articolata” su cosa sia veramente “progresso”. “Il progresso – ha affermato contestando presunte posizioni ‘progressiste’, magari prese ‘sull’onda populista’ o sulla base del ‘consenso’ – è non essere allineati a determinate cose, non copiare, non giustificarsi dicendo che l’Europa evoluta compie questa strada”. “Dobbiamo interrogarci se il criterio è corretto e il merito è vero”, ha osservato, e chiederci: “Perché ridefinire l’alfabeto dell’umano, la famiglia, il lavoro, l’uomo?”. Su temi come “vita, famiglia, convivenze, libertà”, è la tesi del presidente della Cei, “l’Europa sta camminando su una via: da una piccola crepa, che si fa passare per irrilevante, si passa inevitabilmente a un’apertura e a una voragine”. “Se l’Italia fosse l’esempio” di una contro-tendenza, secondo il presidente della Cei, “sarebbe un grande servizio. Ma ci vuole grande convinzione”, ha concluso esortando, sulla scorta del Papa, a “fare tutto il possibile per creare una convinzione che possa tradursi in opzione politica”.
Ripensare i livelli retributivi. “Nessuno vuole mettere le mani nelle tasche degli italiani, ma se ci si accorge che certe tasche sono quasi vuote e altre estremamente piene, allora una riflessione è opportuno farla”. Affrontando il tema del lavoro, il card. Bagnasco ha esortato a “ripensare i livelli retributivi”. “Se parliamo di equità insieme alla giustizia – ha spiegato – forse una domanda su questa forbice che sta aumentando, la società nel suo insieme dovrebbe farsela”. “Reimparare a stimare tutte le occupazioni oneste”, l’altro invito del cardinale, secondo il quale è urgente anche “rivedere i servizi”: “In una società non razzista – ha puntualizzato – non ci sono occupazioni degne solo degli immigrati”. Infine, “salvare l’operaismo attivo, cioè partecipe alle sorti di un’azienda”, ha raccomandato il cardinale riferendosi alla sua esperienza come arcivescovo di Genova: “Non dobbiamo essere autolesionisti”, ha ammonito, mettendo in evidenza la necessità di “parlare di più delle eccellenze per le quali siamo famosi nel mondo”.
Impegno, competenza e onestà. “Impegno, competenza e onestà morale”: sono questi, per il presidente della Cei, i “germi nuovi di realismo” da immettere nel lavoro, la cui vera identità è spesso snaturata e minacciata, nella cultura attualmente dominante, dai “miti del successo e dell’efficienza a buon mercato”. “Impegno – ha spiegato il cardinale – perché la vita è anche fatica; competenza perché non si può vendere vento, e quando lo si è fatto si è raccolta tempesta”. “Onestà morale”, infine, anche per vincere “l’individualismo, che è la madre di tutte le crisi”. “I vescovi – ha precisato il presidente della Cei – hanno uno sguardo vigile sulla frontiera del lavoro. Non hanno ricette particolari, né sotto il profilo politico, né nella dimensione del lavoro”. Sanno, però, che la crisi ha generato una situazione generale di “impoverimento” e di “forte disoccupazione, soprattutto giovanile”, e che “i periodi di non lavoro possono essere un’eccezione dolorosa, ma non possono durare più di tanto, pena la frustrazione spirituale, l’invivibilità esistenziale, l’impossibilità progettuale”.