DIOCESI – L’Ancora ha intervistato Don Gianluca Pelliccioni, parroco di Montelparo, che ci ha parlato dell’anno dedicato a Gregorio Petrocchini, della visita del Cardinale Comastri e delle difficoltà che vivono i paesi dell’interno della diocesi, spesso isolati.
L’anno dedicato al Cardinale Petrocchini si è concluso da poco. Com’è andata?
Io credo che sia stato molto costruttivo, non solo per la parrocchia ma per tutto Montelparo. E’ stato laboriosissimo, ci ha richiesto molta fatica e anche quando, in alcuni momenti, le cose non andavano bene, ci siamo sentiti comunque amati. E la visita del Cardinale Comastri è proprio un esempio evidente di questo amore: c’erano tutte le istituzioni, i vescovi delle diocesi vicine;una collaborazione incredibile. Credo insomma che il bilancio sia nettamente positivo.
So che Comastri non viaggia molto, come mai ha scelto proprio Montelparo?
Noi lo avevamo proposto al nostro Vescovo Gervasio Gestori, e lui lo chiamò. Dato che Comastri è stato a Loreto, dove era il presidente della Conferenza Episcopale Marchigiana, tra di loro c’è amicizia.Inoltre Comastri mi ha confidato -se non ricordo male, l’ha detto anche nell’omelia o nel saluto della messa- che gli anni in cui è stato nelle Marche sono stati per lui i più belli, per cui c’è venuto molto volentieri.
Essendo inoltre questo un tempo in cui la Chiesa sta ragionando sulla trasmissione della fede, sui valori, lui con questa sua venuta ha voluto sottolineare che i valori delle famiglie marchigiane sono da riproporre, tant’è che sui giornali ci fu una certa risonanza del suo discorso e della sua presenza.
Tu sei stato parroco in paesi molto più grandi; facendo il confronto, qual è un aspetto positivo dell’essere prete a Montelparo?
Sicuramente è essere parroco e aver cura della Chiesa e di luoghi che non sono blasonati. Venni qui quando il Papa all’agorà dei giovani disse: “Il Cristo non sta al centro, ma dove sta Cristo è il centro”, per cui anche la periferia. Questo è il luogo dove mi ha messo il Signore.
Qui c’è una comunità; un pregio è la semplicità delle persone. E poi ho potuto godere di una storia di cui a San Benedetto, per esempio, si trova difficilmente traccia perché è stata oscurata o dimenticata; qui invece ho potuto godere di espressioni artistiche del ‘300 ed esserne parroco.
E invece qual è l’aspetto negativo dell’essere prete a Montelparo?
Il difetto è il non collegamento con la diocesi. Si fa un’enorme fatica a vivere cose normali quali comunioni e incontri; questo è un aspetto negativo anche dal punto di vista economico perché ci sono tanti bisogni e poche risorse, per cui occorre centellinarle.
I paesi dell’interno hanno paura di morire…
In quanto istituzione-paese?
Si, proprio in quanto istituzione-paese. Molte persone se ne sono andate, trovano lavoro da altre parti. si stabiliscono altrove, perciò chi rimane ha una sorta di irrigidimento della propria fede, quindi per fidarsi impiega molto tempo. Li comprendo, però vedo che è una sorta di malattia del cuore.
Come potrebbe intervenire la diocesi?
Potrebbe intervenire rivedendo tutta la pastorale come zona, tenendo conto delle peculiarità del territorio; bisognerebbe avere una sorta di indipendenza, ma non di isolamento. Riconosco che la diocesi ci ha investito molto, ad esempio mettendo in zona preti abbastanza giovani, ma adesso è un periodo difficile per tutti, e le cose si sono un po’ sfilacciate.
Credo però che il Sinodo non abbia valorizzato fino in fondo le zone interne perché si voleva evidenziare il rapporto con la cattedrale, quindi l’unità di tutta la diocesi. Questo ha fatto dimenticare un po’ l’interno, e io, in quanto vicario foraneo della zona, l’ho anche detto con molta sincerità al Vescovo.
Eppure, proprio a detta del Vescovo, quelli sempre presenti al Sinodo, anche con la neve, erano proprio quelli dell’interno. E considera che al Sinodo si andava di sera, quindi dall’interno si faceva fatica ad andare.
Erano quelli che ne avevano più bisogno?
Si, bisogno. E poi ci tengono molto a non perdere questo legame; su questo penso che si possa fare molto.
Cioè cosa?
Secondo me dovrebbe essere rivista la situazione dei parroci in quanto ci sono dei sacerdoti che o sono troppo soli, oppure hanno altri impegni. Bisogna perciò rivedere il rapporto delle comunità all’interno della zona: non si può pretendere che una comunità abbia il prete lì, che debba servire esclusivamente quella parrocchia. Bisogna mettersi in rete.
Penso che occorra essere presbiterio che, come mentalità comune, abbia a cura una zona; anche le decisioni interne dovrebbero in qualche misura coordinarsi perché le persone girano. Non è più come una volta, quando nessuno andava fuori.
Occorre inoltre un’attenzione specifica al territorio, io proporrei una pastorale attenta alla concretezza della vita delle famiglie. Ci sono tanti problemi: la gente perde il lavoro; le persone non ci chiedono di fare miracoli ma ci chiedono di vivere una spiritualità profonda. Non si tratta di fare le cose; si tratta di farle in quanto Comunione della Chiesa in modo che, anche se la persona venisse una sola volta a messa, ne uscirebbe nutrita. Se manca questo però, la gente si ribella.
Credo sia questa l’attenzione primaria verso la comunità, per cui anche i gesti che si fanno verso i bambini…Questo territorio ad esempio ha una vocazione all’accoglienza, qui c’è la montagna e in estate ci sono i ragazzini dei campiscuola, i turisti, eppure questo aspetto non viene mai preso in considerazione. Arrivano migliaia di persone…quanto potremmo metterci a servizio?