ITALIA – È ancora legittimo parlare di “questione morale”, dinanzi all’ondata di arresti e di indagini che nel giro di pochi giorni ha sconquassato il mondo italiano dell’imprenditoria e della finanza? Non solo manager pubblici sono finiti in manette (Giuseppe Orsi di Finmeccanica) o sotto indagine (Paolo Scaroni di Eni), ma anche per tanti esponenti della finanza (Gianluca Baldassarri per Mps e Alessandro Proto), e dell’imprenditoria (da Angelo Rizzoli a Massimo Cellino) si sono aperte le porte del carcere. Un autentico diluvio rispetto al quale la categoria della “questione morale” appare oggi insufficiente. È bene ricordare, giusto per memoria comune, che l’imprinting risale a una stagione politico-culturale lontanissima nel tempo e che certamente sfugge alla memoria di intere generazioni che quelle temperie non hanno vissuto. Molti dei nostri giovani che frequentano le piazze virtuali, ma anche quelli che animano le associazioni e i movimenti ecclesiali, non sanno neppure di cosa stiamo parlando. Semplicemente non erano ancora nati.
Era il 28 luglio del 1981 e su “La Repubblica” apparve un’intervista con il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, che dichiarava: “ La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del Paese e la tenuta del regime democratico”. Parole che oggi sembrano ancora attualissime, ma in realtà sono state superate dai fatti di Tangentopoli (1992) e dallo svelamento di questi giorni. Sembra quasi che davvero non basti più denunciare l’esistenza di una “questione morale” nel Paese per smuovere le coscienze che sembrano paralizzate. Solo pochi giorni fa, il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, ha denunciato “la corruzione sistemica” che “oltre al prestigio, all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione, pregiudica la legittimazione stessa delle pubbliche amministrazioni e l’economia della nazione”. Un danno al sistema-Italia calcolato in 60 miliardi di euro sottratti al popolo. Per non parlare delle graduatorie internazionali sulla corruzione “percepita” che ci hanno visto precipitare nel 2012 al settantaduesimo posto, dal sessantanovesimo dell’anno precedente.
Dunque un Paese, scusate la brutalità, di corrotti e di corruttori. Perché se qualcuno viene corrotto (prevalentemente amministratori e politici che “governano” i flussi del denaro pubblico) c’è sempre qualcun altro che corrompe. E qui veniamo alla società civile e ai suoi limiti. In tempi come questi, in cui si produce tanta retorica pubblica sulla prevalenza della società civile, una riflessione s’impone. A partire da una domanda: siamo davvero sicuri che la società civile possa vantare particolari meriti rispetto alla società politica? L’ondata di arresti che ha investito il mondo della produzione e della finanza sembra restituirci l’immagine di un Paese che deve smetterla di prendersi in giro e di volgere l’indice accusatorio verso una sola parte: la politica. Ecco perché oggi s’impone, se vogliamo davvero essere onesti intellettualmente, una “questione civile”. Che riguarda direttamente il nostro modo di concepire e vivere la cittadinanza. Quella soggettualità che non può e non deve continuare a prescindere dalla coscienza del “noi”, ancora di recente evocata dal cardinale Angelo Bagnasco quando ha indicato l’individualismo come il “male del secolo”.
Giusto per capirci: il “controllo di legalità” è stato un caposaldo della cultura politica nata dalle ceneri della lunga e drammatica stagione di “Mani pulite”. Cosa ha prodotto quel modello di socialità? Ben poco, visto l’esplodere della criminalità economica e la fuga di tanti magistrati verso la politica… Meglio tornare a investire culturalmente sulla dimensione comunitaria come spazio per la crescita di una presenza civile autonoma e pensante. Ecco perché sarebbe opportuno non speculare più sulla “questione morale” come paradigma del rapporto tra politica e società, ma porre i riflettori sulla “questione civile”, intesa come adeguatezza dei cittadini a produrre classi dirigenti. Se la società politica fa fatica a rinnovarsi, anche la società civile ha l’affanno nel proporre davvero il “nuovo”.
La nuova politica, se mai l’avremo, potrà nascere solo da una rifondazione dello spazio pubblico in una dimensione comunitarista, dove il “noi” faccia da incubatore per i doveri di cittadinanza.