PALESTINA – “Siamo fiduciosi. Gli avvocati hanno rappresentato molto bene la situazione esponendo le nostre ragioni, evidenziando come questo muro metterà a repentaglio la vita della nostra comunità cristiana e fornendo un’ampia documentazione a sostegno. Non ci resta che confidare nel Signore perché illumini le menti di coloro che sono chiamati a decidere e quelle dei nostri avversari in Tribunale, ovvero l’esercito di Israele”. Padre Ibrahim Shomali è il parroco di Beit Jala, villaggio palestinese di 15mila abitanti, in maggioranza cristiani, posto a 10 Km a Sud di Gerusalemme, nel governatorato di Betlemme. Dal 2006 il parroco, con la sua comunità, lotta contro la decisione israeliana di costruire un muro di separazione, alto ben 8 metri, che dovrebbe collegare definitivamente le tre colonie israeliane, Gilo, Har Gilo e Givat Hamatos, che circondano Beit Jala, come una prigione. Il passaggio della barriera, se approvata, taglierà di fatto in due le terre di Cremisan, dove dal 1885 esiste un monastero salesiano, la cui cantina vinicola offre lavoro a venti operai di fede cristiana del villaggio di Beit Jala. Ma Cremisan ha anche una scuola elementare e un asilo per 400 studenti. Il percorso del muro lascerà la scuola in territorio palestinese, mentre monastero e vineria finiranno in terra israeliana, senza contare che saranno confiscati anche 55 dunam (un dunam equivale a un km²) di terra agricola, tra cui una vasta pineta molto frequentata anche dalle famiglie di Betlemme e dei villaggi vicini, appartenenti ai salesiani e a 58 famiglie di Beit Jala.
Una protesta non violenta. Ed è in questa pineta che, dal 1 ottobre del 2011, la comunità cristiana locale si raduna intorno a padre Ibrahim per celebrare, ogni venerdì, una messa, “perché la nostra terra abbia giustizia. Ritrovarci qui tutti insieme significa ribadire che dalle nostre terre non ce ne andremo mai”. Il gruppo si è ingrossato accogliendo nelle proprie fila anche delegazioni internazionali che hanno preso a cuore il problema. Una forma di protesta non violenta, di preghiera, che si è trasferita nelle aule del Tribunale dove la causa viene portata avanti già dal 2006 dal municipio di Beit Jala, mentre nel 2010 si sono uniti i salesiani. Il 12 febbraio scorso si è tenuta l’ultima udienza del caso “Cremisan”. Davanti alla Corte di appello, nella sede del Tribunale di prima istanza di Tel Aviv, sono comparsi gli avvocati Manal Hazzan-Abou Sinni, della Societé Saint-Yves, organizzazione cattolica che si occupa di difesa dei diritti umani, e Ghiath Nasser, a rappresentare i religiosi e le famiglie proprietarie della terra. Con loro erano presenti anche monsignor William Shomali, vescovo ausiliare di Gerusalemme e vicario patriarcale per la Palestina, lo stesso padre Ibrahim, il sindaco di Beit Jala, Nael Salman, nonché rappresentanti delle ambasciate di Francia e Germania, dell’Onu e diversi giornalisti. Dall’altra i legali del ministero della Difesa israeliano.
Una ingiustizia. “Ci conforta la presenza di rappresentanti di molti Paesi internazionali – dichiara al Sir il parroco – speriamo che possano fare le giuste pressioni su Israele affinché cambi idea sul muro. Non è sufficiente essere al nostro fianco bisogna anche dare concretezza a questa vicinanza. La questione del Muro non riguarda solo pochi paesi ma tutto il mondo, ed anche la Chiesa”. Lo scorso gennaio una delegazione di vescovi dell’Ue e del Nord America si era recata a Cremisan e a Beit Jala per vedere da vicino l’impatto che avrebbe la barriera se questa venisse costruita. La denuncia dei vescovi, contenuta nella loro dichiarazione finale, fu forte. Essi definirono una “ingiustizia” la costruzione del muro israeliano nella valle di Cremisan. “Promettiamo di fare pressioni sui nostri rispettivi governi affinché facciano il possibile per evitarla”.
Un rischio concreto. Il rischio che il villaggio di Beit Jala si spopoli a causa del muro è reale. Secondo dati del Dipartimento per i negoziati dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina, “su terre appartenenti al governatorato di Betlemme sorgono 22 colonie israeliane. Dagli anni Sessanta in poi, Israele ha illegalmente confiscato 22mila dunam di terra, di cui 18mila annessi a Gerusalemme, altri 4mila presi per costruire il muro. Beit Jala ha perso il 70% delle proprie terre per permettere la costruzione delle colonie di Gilo e Har Gilo. Una volta che il muro sarà costruito su Cremisan la metà degli uliveti appartenenti alle famiglie di Beit Jala si troverà in territorio israeliano”. “Il muro taglierà fuori non solo gli alberi di ulivo ma anche le viti e la cantina dei salesiani e venti nostri palestinesi perderanno il posto – afferma padre Shomali – la vineria produce ogni anno 220mila bottiglie. Sarà un danno notevolissimo per la nostra debole economia. Non ci sarà più futuro per noi, le famiglie saranno costrette a emigrare, perché avranno perso le loro proprietà. Ecco perché è importante difendere questa terra. Da parte nostra continueremo a pregare come abbiamo sempre fatto, a chiedere aiuto e sostegno al mondo, sperando di essere ascoltati”. Ora il Tribunale ha cento giorni di tempo, a partire dal 12 febbraio, per emettere la sua sentenza. “Se dovesse andare male – annuncia il parroco – ci rivolgeremo alla Corte suprema”.