Dopo l’annuncio del suo ritiro, Benedetto XVI è divenuto argomento obbligato per i media di tutto il mondo, studiato, analizzato e descritto nella sua personalità e nella sua storia. A molti è sfuggito il fatto che lui stesso, in una conversazione a tutto campo e a cuore aperto, si è palesato ai suoi preti, i preti di Roma, di cui Joseph Ratzinger è, prima di tutto, vescovo.
In una condizione di particolare confidenza, senza nulla di scritto nelle mani, si è rivolto ai “cari fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio”, confidando e quasi confessando ricordi, pensieri, opinioni, sentimenti, con molteplici punti di sospensione segnati da “eccetera”, come per interrompere il flusso dei ricordi.
Il nucleo del discorso è stato il Concilio, rivissuto in una specie di “chiacchierata” su come lui l’ha visto e vissuto dal suo primo nascere fino agli esiti attuali. Inizia il discorso con un aneddoto risalente al 1959, quando a lui, il più giovane dei professori, fu richiesto dall’arcivescovo di Colonia, card. Joseph Frings, di preparare un progetto su il “Concilio e il mondo del pensiero moderno”, che gli valse la partecipazione come “esperto personale” del cardinale e poi come “perito ufficiale”.
“Allora siamo andati a Concilio non solo con gioia, ma con entusiasmo”, racconta il Papa e, come per un inesauribile impulso, continua a narrare lo svolgersi e il districarsi di una storia fatta di tanti rivoli che confluiscono in un unico grande evento ecclesiale: persone, fatti, situazioni, problemi, discussioni, senza sosta con il preciso intento di ritornare al vero senso del Concilio sottratto a equivoci, strumentalizzazioni, forzature e fabulazioni che, dall’esterno e dal mondo dei media, sono state e continuano a essere tirate in ballo.
Ratzinger rivendica il diritto di dire qual è il vero Concilio, non per la sua infallibilità, ma per l’esperienza vissuta in profondità e in comunione con i suoi fratelli vescovi nell’esercizio del ministero pastorale di guida della Chiesa universale. La sensazione dominante all’inizio era quella di una Chiesa “robusta” e in buona salute, ma che dava segni di stanchezza, più legata al passato, con le crisi, tipo il caso Galilei, che non “portatrice di futuro”. Ratzinger, anziano e dimissionario, scandaglia il suo lontano vissuto personale profondo e, ancor oggi, raccontando la prima riunione dell’assise conciliare, plaude al rifiuto dei padri di approvare le liste dei nomi dei membri delle Commissioni già preparate e commenta: “Non fu un atto di ribellione, ma di coscienza e di responsabilità”. I vescovi si resero consapevoli che erano stati convocati non per approvare decisioni già prese, ma come “soggetti” attivi del Concilio.
Non ha difficoltà, lui vescovo di Roma, nel discorso ai preti romani, a dire che la strada del Concilio fu aperta da quella che fu chiamata l’”alleanza renana”, composta dai vescovi francesi, tedeschi, belgi e olandesi, che si mostrarono più preparati e motivati.
Passando all’analisi dei singoli temi trattati dal Concilio non dice cose che non siano conosciute, ma le dice in un modo e con un linguaggio immediato, che sembra di assistere in diretta allo svolgimento dei lavori. La liturgia, ad esempio, egli dice, era come “chiusa nel Messale romano del sacerdote”, l’assemblea dei fedeli era rappresentata dal chierichetto che rispondeva alle parole del prete, mentre i fedeli pregavano con libri propri: “Erano quasi due liturgie parallele”, commenta. La scelta della liturgia, dice il Papa, “retrospettivamente” appare molto buona perché ha messo in evidenza il “primato di Dio, il primato dell’adorazione”. Descrive, senza entrare nei particolari, i meriti del documento che ha rimesso al centro di tutta la liturgia il mistero pasquale e la domenica, sottolineando due principi: quello dell’intelligibilità delle parole, non più in una lingua sconosciuta, e quello della partecipazione del popolo. “Purtroppo questi principi sono stati anche male intesi”, lamenta il Papa, e per evitare ciò si richiede una formazione permanente.
Passando in rassegna gli altri temi sempre sul filo del ricordo, coglie gli aspetti essenziali e indica il tipo di lettura, che potremmo chiamare “sapienziale”, di tutto il dettato conciliare, soprattutto là dove affronta il tema dell’ecumenismo e delle religioni, che qui non possiamo riportare, scivolando via con leggerezza e lucidità tra le asperità delle contrapposte posizioni circa continuità o discontinuità, tra vero e falso rinnovamento della Chiesa. Su questo, che è il secondo tema affrontato, Benedetto XVI parte dalla “unilateralità della definizione del primato”, causata dall’interruzione forzata del Concilio a causa dell’occupazione di Roma, rievoca la gioia del sentirsi che “noi siamo Chiesa”, membra vive del Corpo mistico di Cristo, per approdare nel Concilio alla definizione del “popolo di Dio”. In continuità con l’Antico Testamento si compie la costruzione ecclesiologica trinitaria propria del Vaticano II: “Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito”.
Il Papa continua a raccontare il “suo” Concilio, risultandone perfetto e profondo conoscitore ed esperto, quello che l’ha vissuto tutto, in tutte le sue fasi, durante e dopo, fino ad oggi e ne è, pertanto, il migliore esegeta. Parla come un fiume in piena e si frena non potendo dire tutto quello che ha nella mente e nel cuore. Conclude con il rammarico che quell’evento e la ricchezza di pensiero e d’indicazioni pastorali concrete che il Concilio ha prodotto sia stato in qualche modo “banalizzato” e abbia prodotto calamità e sciagure per la Chiesa, trovando difficoltà a realizzarsi a causa di una volgarizzazione inadeguata o persino fuorviante: “Il Concilio virtuale – afferma con lucidità e fermezza – era più forte del Concilio reale”. Quello che veniva rappresentato all’esterno, al di fuori della propria chiave di lettura, che è la fede, ha oscurato il vero significato. Ma, sembra dire il Papa, è giunta l’ora in cui le cose si mettano in chiaro: “Mi sembra che, 50 anni dopo, vediamo che il Concilio virtuale si rompa, si perda e appare il vero Concilio con tutta la sua forza spirituale… la vera forza che poi è anche la vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa”.
Conclude con la promessa della preghiera e che, pur nascosto agli occhi del mondo, rimarrà presente accanto ai suoi preti. Questo lungo discorso, l’ultimo al clero romano, che non si riesce a riassumere, rimarrà scolpito nella memoria di coloro che lo hanno ascoltato e di chi l’abbia anche soltanto letto.