In mezzo al caos degli Anni Settanta, derivante dalla rivoluzione culturale del maggio francese del 1968, il liceale diciassettenne Gilles cerca di trovare la sua strada tra gli eccessi violenti dei compagni di sinistra, i labirinti di una rivoluzione non ancora conclusa e i dubbi di una vocazione artistica in fieri. Aspirante artista e regista, Gilles rifiuta di credere che il coinvolgimento politico assoluto sia l’unica via per realizzare i propri sogni e prova a rifuggire le regole seguite da tutti i coetanei d’Europa, impegnati in tumulti politici e sociali.
Nel prefinale di The Dreamers. I sognatori, il ‘68 irrompe da una finestra spaccata, a svegliare gli amanti assopiti per richiamarli alla vita. Sembra ripartire da lì Olivier Assayas, che con movimento opposto e dolente filma il ‘68 darsi la morte lanciandosi da un’altra finestra. Il Maggio Francese è finito, siamo dopo maggio (Après Mai, recita il titolo originale), nel 1971: il furore militante divampa ma gli ideali sono sulla via dell’autunno, quel fine agosto, inizio settembre che dava il titolo a un altro film del regista.
Il gioco dei rimandi potrebbe continuare all’infinito, perché Assayas in quest’opera ha messo tutto se stesso e tutto il suo cinema: apertamente autobiografico, il protagonista Gilles è alter ego dell’autore. Come lui, nei primi Anni 70 è un liceale legato ai movimenti di Sinistra; come lui, ha un padre che firma fiction televisive, oggetti tremendamente borghesi nell’ottica dei duri e puri adolescenti. Che organizzano proteste, girano furiosamente il ciclostile, scappano dai celerini motorizzati, viaggiano per l’Europa e poi cercano se stessi in India. Si amano, distrattamente, si dividono e si guardano con sospetto mettendo in graduatoria il livello di adesione alla Causa. La sceneggiatura, premiata a Venezia 2012, è calibrata alla perfezione: l’amarezza s’instilla implacabile mentre la Rivoluzione cede il passo al tempo, e contro il destino non va più nessuno. In comune con il ‘68 di Bertolucci, quello di Assayas ha il sentore di sogno, di ricordo addolcito dal tempo: così i protagonisti sono graziosi ed evanescenti (gli eroi, si sa, son tutti giovani e belli), la fotografia è limpida e luminosa e ogni elemento della messa in scena suggerisce la leggerezza di quel qualcosa nell’aria che da rivoluzione si è fatto illusione e poi ricordo nostalgico. L’ironia lancinante del finale, in cui l’ambizione artistica di Gilles soccombe a un’industria cinematografica senz’anima, è meno crudele se si pensa al sequel immaginario cui allude: quello in cui Gilles/Olivier con il cinema commerciale si fa le ossa (Assayas ha cominciato lavorando al Superman di Donner), e anni dopo fa deflagrare la Rivoluzione perfino nei piccoli e borghesi schermi della Tv (vedi alla voce Carlos).