“Ero assistente nazionale della Gioventù mariana dei vincenziani, quando accettai di fare il parroco a Casamaina, un paesino di poco più di 400 anime a 1400 metri di altezza, in provincia de L’Aquila. Mentre ero lì capitò il primo giovane: Danilo. C’era tanta neve quel giorno di febbraio del 1991, quando il papà mi lasciò questo suo figlio. Danilo aveva un processo in corso e il giudice aveva stabilito che si trovasse per lui una comunità che lo prendesse in affidamento altrimenti l’alternativa sarebbe stata il carcere. Scrissi al giudice che me ne sarei occupato io, in attesa di trovargli una comunità. Poi accadde che dopo qualche giorno settimana arrivarono altri giovani…”. Si interrompe padre Matteo Tagliaferri, quasi a cercare nei ricordi il prosieguo della storia. Religioso vincenziano, 69 anni, una vita spesa al servizio dei più poveri, dei più deboli, dei giovani che “si ingannano di trovare nelle droghe ogni genere di benessere della vita e che invece si ritrovano svuotati e spenti”. Come Danilo e i circa tremila altri “volti” che sono passati nella sua “Comunità in Dialogo”, nata proprio da questo primo incontro. “Ho voluto scegliere questo nome – ‘Comunità In Dialogo’ – perché dialogare ci toglie dalla solitudine, ci fa compagni di cammino, ci arricchisce. Ricordo i primi sacrifici: molte mattine ci alzavamo presto, col freddo, per andare a Roma e portare in ospedale due giovani che erano sieropositivi. E poi Luigione, un alcolista che conobbi in un bar a Casamaina, bestemmiava in continuazione, ma quel suo modo di fare era un grido di aiuto di una persona che non aveva mai avuto niente dalla vita. Con i miei primi giovani ci recavamo nelle strade, nei bar, nei locali del paesino, dove potevamo incontrare e conoscere la gente. Abbiamo iniziato così: con la legna portata dal caro Luigione, e la mortadella e il pane delle anziane del paese”. Da Casamaina a Trivigliano – presso una struttura messa a disposizione dalla diocesi di Anagni (Frosinone) – il passo fu breve. Ciò che partì da quei primi mesi, ora è sotto gli occhi di tutti”. Non solo in Italia. I centri della comunità oggi sono in Perù, in Colombia, in Camerun e in Ucraina.
A Trivigliano padre Matteo vive tra i suoi giovani, parla con loro, mangia con loro, prega con loro, “ma nessuno è obbligato a farlo, tra noi ci sono persone di fede diversa e il rispetto è fondamentale”. Molti di coloro che entrarono in comunità per essere aiutati oggi sono diventati operatori e aiutano chi arriva disperato nei centri. “È più facile somministrare dosi controllate di farmaci che farsi presenza e accompagnamento” spiega il sacerdote che invoca “attenzione umana che svegli piuttosto che addormenti, che aiuti ad accettare la fatica di un impegno per una vita migliore”. Bussano alla porta, entra Davide, lo accoglie con un abbraccio. Alle spalle un passato di carcere e tossicodipendenza. “Ho rovinato due famiglie la mia e quella che mi ero creato – dice il giovane che ha una figlia – sono arrivato qui spento. Respiravo soltanto. Ora ho ritrovato la fiducia che mi ha permesso di superare le difficoltà, non solo l’astinenza e di combattere contro un tumore. A breve comincerò nuovi cicli di cure”.
La storia di Davide è quella di tanti giovani che sono usciti dalla droga grazie a padre Matteo e alla sua comunità. “Davide è uno scampato da questa cultura che ci rende poveri – incalza il sacerdote – uno ‘svegliarino’ della nostra società che ha imparato a vivere con pienezza la propria vita, con fatica e sacrificio”. Chiave di tutto è l’amore, il sentirsi amato. Un’esperienza provata da padre Matteo, quando quattordicenne, “mi recai in chiesa di Giovedì santo per pregare. Provai la sensazione di sentirmi amato da Dio. Quell’incontro mi trasformò, la mia timidezza divenne coraggio. Mi passarono le paure e i conflitti interiori. Avevo trovato il senso della mia vita. Compresi che Dio ci incontra al di là dei nostri problemi. Oggi lo ripeto sempre: non bisogna incontrare il problema ma la persona”. “Non tutti ce la fanno – spiega padre Matteo. Ci sono giovani che rinunciano a completare il percorso. Altri sono morti. Ma il cuore di Dio è grande da abbracciare anche le debolezze. Questo amore scardina ogni periferia umana e geografica”. Padre Matteo conosce bene l’odore delle sue pecore, “me lo sento addosso” dice parafrasando Papa Francesco. “È l’odore della paura di non farcela, della sconfitta, dell’incertezza, del restare soli” racconta mentre indica un grande quadro posto nella mensa comunitaria. Mostra una persona di colore nero in piedi che si china per aiutare un’altra di colore bianco a terra. Entrambi sono sostenuti da due mani. Dietro si vede un volto chinato di lato che mostra un grande orecchio. “La persona nera – spiega padre Matteo – è colui che è già caduto e che, rialzatosi, ora aiuta chi è in difficoltà, la persona colorata di bianco. Il grande orecchio indica il bisogno di ascolto del disagio. Non sono soli. Chi cade deve sapersi rialzare grazie alla mano di chi è già caduto e anche di persone preparate. Anche così si annuncia l’amore di Dio. Riconoscere dignità e rispetto diventa il primo gesto di accoglienza”.
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