SLOVENIA – Nell’Europa della recessione le (brutte) sorprese sembrano non finire mai. Così, appena si intravvede una pur dolorosa medicina per Cipro, ecco avanzare un nuovo malato: la Slovenia. Il Paese balcanico era parso un’isola felice all’inizio della crisi, con tassi di crescita di tutto rispetto. Eppure già nel 2009 e 2010 s’erano evidenziati i primi segnali d’allarme: ingenti crediti in sofferenza per le principali banche nazionali, export in contrazione, domanda interna insufficiente a far girare un discreto apparato produttivo, minor afflusso di capitali dall’estero. L’intervento statale, richiesto per puntellare gli istituti di credito, ha così fatto lievitare il debito pubblico (fino al 60% del prodotto interno lordo), mentre il Pil andava in rosso (-2%) e il deficit superava il 5%, con una disoccupazione galoppante verso il 10%.
La Commissione europea, con le periodiche “Previsioni economiche”, ed Eurostat avevano più volte segnalato le difficoltà di Lubiana e nel luglio scorso l’economista ed ex ministro Joze Damijan aveva esplicitamente parlato della possibilità di un ricorso al fondo “Salva Stati” europeo. Anche perché la Slovenia fa parte dell’Eurozona: tendere la mano a Lubiana doveva apparire doveroso per la stabilità della valuta comune.
Il tutto si materializzava parallelamente a una situazione di conflitto politico e di tensioni sociali montanti. Il precedente governo di centrodestra, guidato da Janez Jansa, era stato costretto a lasciare il campo un mese fa a una nuova maggioranza di centrosinistra, guidata dalla prima donna premier, l’economista Alenka Bratusek, che nel discorso di insediamento aveva indicato un duro programma emergenziale, tra risanamento e rilancio.
Il quotidiano “Dnevnik” (Il giornale) il 4 marzo, dopo aver descritto il cupo quadro economico, scriveva: “Non è esagerato affermare che dopo cinque anni di crisi la Slovenia è quasi clinicamente morta. La recessione, accompagnata dagli eccessi umani ed etici delle élite politiche ed economiche, ha provocato frustrazione nella popolazione e ha fatto perdere ogni speranza. In un Paese in cui in passato si poteva ottenere un prestito in cinque minuti, i negozi ‘compro oro’ spuntano come funghi dopo la pioggia e sono diventati il simbolo di una povertà dilagante”.
I segnali del nuovo fronte sloveno non erano dunque mancati: eppure l’Eurozona e i 27 capi di Stato e di governo dell’Ue devono aver trascurato questo nuovo capitolo della crisi, dopo quelli che hanno richiesto interventi pesanti e iniezioni di denaro dalla Bce e dal Fmi, ossia Irlanda, Portogallo, Grecia, Spagna e Cipro. La domanda riguarda in questo momento la possibilità che altri Stati – dell’area euro o meno – si facciano avanti per invocare un salvagente. Non è un mistero che Bulgaria e Romania siano in affanno, che Ungheria e Slovacchia non brillino. Nell’area euro, la Francia e l’Italia soprattutto, pur in condizioni differenti, rubano il sonno di Angela Merkel e di altri premier del nord Europa…
Ma occorre soprattutto chiedersi se le sorprese a raffica palesatesi in questi anni abbiano convinto i governi dei Paesi aderenti a serrare i ranghi e a mettere in atto risposte condivise e adeguate ai rischi che si corrono. Qualcosa è stato fatto, ad esempio, con il Fiscal compact (regole per il pareggio di bilancio), il fondo salva-Stati, il “semestre europeo” (coordinamento delle politiche economiche), il Patto per la crescita e l’occupazione.
Ogni decisione ha richiesto mesi, persino anni, di estenuanti trattative politiche tra le capitali e Bruxelles; alcune di esse, come il Patto per la crescita, sono rimaste sulla carta. Ora sul tavolo del Consiglio europeo sono presenti altre due importanti mete che potrebbero rafforzare l’integrazione e il mercato interno: la Sorveglianza unica bancaria e il completamento dell’Unione economica e monetaria. Si tratta di strumenti per prevenire le crisi, per contenerne gli effetti, per rilanciare il sistema produttivo e finanziario nonché l’occupazione.
L’Ue è di nuovo a un bivio fra consolidamento o progressivo sfaldamento del disegno dei “padri”: il caso-Slovenia aprirà gli occhi dei decisori politici?