ITALIA – Se c’è un nome che, più di altri, negli ultimi anni ha rappresentato per gli italiani il paradigma stesso del prodotto a basso costo, ebbene questo è Ikea.
E certo non fa sorridere nessuno – estimatori o meno dei mobili svedesi – la notizia che pure il tempio del low cost ha registrato un calo del fatturato e addirittura il segno rosso nei conti del 2012.
Mai era successo nella storia italiana del colosso scandinavo, ma questa crisi sta continuamente segnando primati negativi che ci risparmieremmo volentieri.
Come quello del calo dei consumi alimentari. È la prima volta che capita dal Dopoguerra, anche se ciò non significa che le pance siano più vuote, ma solo che gli italiani stanno diventando assai attenti ai prezzi. I responsabili della grande distribuzione raccontano di boom dei prodotti senza etichetta (“no label”), di vendite buone solo con le promozioni e gli sconti, di forte “infedeltà” del consumatore disponibile a girovagare tra supermercati per inseguire le occasioni migliori.
Il bello (il brutto) è che nemmeno gli hard discount – quei punti vendita che fanno del basso prezzo la filosofia aziendale – stanno godendo di questo momento nero. Perché alle loro porte arriva quella classe media oggi sempre più in difficoltà, ma dalle stesse escono i clienti “tradizionali”, quelli che da sempre cercano di spendere il meno possibile. Sono quelli che non si stanno impoverendo perché… sono realmente poveri.
Non si immagini solo il clochard o l’immigrato straniero. La vera povertà in Italia – non quella delle statistiche sulle denunce dei redditi, secondo le quali qui ci sarebbe un’indigenza di massa – è quella che sta complicando le vite di moltissimi anziani, di pensionati da meno di mille euro al mese, le cui indennità anno dopo anno perdono potere di acquisto rispetto a un costo della vita in crescita nelle sue componenti imprescindibili: riscaldamento, benzina, energia elettrica, ticket e prestazioni sanitarie.
Sono i padri, i nonni con il contributo dei quali si sostiene la famiglia; anche se sempre di più è il resto della famiglia che ora deve dare sostegno a loro.
Eppure questi dati, queste situazioni fanno a pugni con altri numeri che invece testimoniano lo stato di salute di chi vende prodotti di lusso; la buona tenuta del turismo d’élite; le vendite boom di prodotti tecnologici all’avanguardia; il proliferare di trattamenti estetici e di centri benessere, e così via. Perché c’è una fetta d’Italia a cui le cose vanno (ancora) bene, per fortuna loro e di tutti noi. Solo se l’economia cresce, si trovano i soldi per comprare sofisticate Tac, più efficaci… della fitoterapia.
E all’orizzonte si cominciano a intravvedere le prime, fioche luci dell’alba, grazie soprattutto a quell’export che sta impedendoci di precipitare in un baratro greco. In primis quell’agroalimentare che qui sta appunto soffrendo, ma oltreconfine fa faville.
La verità, però, è che sta mancando una forte reazione del sistema-Paese, politiche radicali d’incentivo all’economia che invertirebbero la spirale in cui siamo avvolti. Le politiche ormai si conoscono e sono unanimemente condivise (pagamenti più celeri della pubblica amministrazione, sblocco del credito bancario, allentamento della fiscalità sui redditi da lavoro, investimenti che comprendano anche quelle decine di miliardi di euro comunitari che ci ostiniamo a non spendere, ecc.); manca – incredibilmente visto il momento – una lucidità politica e sociale che aggiri i profeti del pauperismo felice e le sirene della distribuzione gratuita di pane.
Proprio perché l’impoverimento sta interessando numeri sempre più ragguardevoli, è ora di assoluta necessità la strategia della canna da pesca. Non dobbiamo sfangare l’oggi, dobbiamo costruire un domani migliore. Il nuovo welfare – la nuova distribuzione dei pesci catturati dalle canne da pesca – dovrà saper leggere una realtà che vede una società italiana sempre più vecchia, con sempre meno figli. Altrimenti si finisce per dare pesci a baldi giovani con tutta la vita davanti, e decurtare le pensioni a milioni di anziani la cui qualità del vivere sta infelicemente decrescendo.