Di Paola Ricci Sindoni ordinario di filosofia morale e vicepresidente vicaria di Scienza & Vita
Ancora una volta la neuroetica, la disciplina che tenta di individuare con la mappatura neurobiologica del cervello, un differente modo di comprendere le attività cognitive, le emozioni e i comportamenti (e finalmente archiviare le obsolete prescrizioni dell’etica) ha raggiunto un nuovo obiettivo.
Questa volta è la memoria ad essere colpita tramite un nuovo farmaco, il metirapone, in grado di ridurre il cortisolo, un ormone dello stress e così modificare i nostri brutti ricordi, sino alla loro cancellazione.
In attesa che questi risultati siano ancora scientificamente provati e utilizzati per patologie da stress post-traumatico, non è male ripensare a quel mistero indecifrabile che è la nostra memoria, quel grande palazzo, per dirla con Agostino, in cui ricordi belli e brutti si intrecciano, formando quel deposito di senso su cui costruiamo il nostro presente.
È un dato di fatto accertato dall’esperienza, infatti, che mentre i ricordi belli tendono spesso ad offuscarsi, sono quelli spiacevoli a continuare a perseguitarci. Che non ci sia una ragione etica in tutto questo?
C’è da pensare infatti che i ricordi brutti siano spesso legati a cattive azioni fatte o subìte, quelle insomma che ineriscono alle nostre relazioni personali, all’interno delle quali l’altro è stato visto come rivale, nemico, persona da battere.
Che la memoria ce li restituisca, può essere il segnale che la nostra coscienza abbia di nuovo a ricomprenderli e, forse, a reinterpretarli alla luce di un’altra esperienza fondante e rigeneratrice: quella del perdono. Perdono da dare, se qualcuno ci ha lasciato una ferita che va cicatrizzata, perdono da ricevere se, anche attraverso qualche nostro gesto, ci si può riavvicinare a quanti ci hanno colpito. In tal senso il cristianesimo ce ne offre tutta la sua ricchezza trasformante.
I ricordi, perciò, hanno bisogno di etica e non sono belli o brutti (anche se differentemente ci colpiscono), ma possono essere, per dirla con J. Asmann, “caldi” o “freddi”. Questi ultimi sono molto spesso ricordi bloccati nell’ossessiva ripetizione, irrigiditi nel passato che da solo condiziona il presente, congelati in una memoria, inadatta a pervenire il mutamento e, dunque, la comparsa di qualcosa di essenzialmente nuovo.
Il ricordo caldo, invece, suscita uno spazio dentro la memoria, che va tenuto aperto, perché produce una sorta di destabilizzazione del passato costretto, come dire, in un contrasto doloroso a lasciar posto al presente, dove non scompare – è sempre un ricordo, un ricordo caldo – ma produce una sorta di metamorfosi creativa, che solo il perdono, nei confronti di sé e dell’altro, produce.
Ben vengano le nuove scoperte della neurobiologia, specie se possono liberare la mente di molti malati dalla rigida fissità dei ricordi freddi, ma non pensiamo di abbandonare l’etica, dal momento che questa ci offre strumenti di comprensione per allargare i nostri orizzonti di vita.
Il perdono infatti non si ottiene farmacologicamente, né può essere considerato solo una buona pratica religiosa, ma può diventare in una prospettiva allargata anche una sana dinamica politica, se anche Hannah Arendt lo considerava un elemento scardinante nei confronti delle contorte pratiche della democrazia.
Un altro modo per dire che scienza e fede possono camminare insieme, sostenendosi a vicenda, senza supporre però di sostituirsi una con l’altra, ma contribuendo, ciascuno nel proprio ambito, a illuminare le condizioni del nostro abitare il mondo.