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Commercio di armi più difficile

“Una notizia storica e un primo passo in avanti verso un percorso tutto da tracciare”: così Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di ricerche internazionali “Archivio Disarmo”, commenta l’approvazione, da parte dell’assemblea generale dell’Onu, del primo trattato internazionale sul commercio delle armi convenzionali. Sono stati 154 i voti a favore, 3 i contrari (Siria, Corea del Nord e Iran) e 23 astenuti, tra cui Cina e Russia. Se ne discuteva da sette anni. Ora ciascun Paese è libero di ratificarlo e implementarlo nelle normative nazionali. Il trattato entrerà in vigore a partire dalla cinquantesima ratifica, si prevede nel giro di un paio di anni. La richiesta è partita dalla società civile mondiale, soprattutto dalla campagna “Control arms”. Vi ha partecipato anche la Rete italiana per il disarmo, un network a cui l’Archivio Disarmo aderisce insieme a sindacati, gruppi missionari, giovani del servizio civile, Acli, Arci. Simoncelli, intervistato da Patrizia Caiffa, per il Sir, è autore di molti testi in materia, tra cui “La pace possibile. Successi e fallimenti degli accordi internazionali sul disarmo e sul controllo degli armamenti” (Ediesse, 2013).

Il via libera al trattato è una notizia storica?
“Certamente. È la prima volta nella storia delle Nazioni Unite che si affronta una normativa internazionale sul commercio degli armamenti. Ed è la prima volta che 153 Paesi votano a favore. Si può dire che la quasi totalità dei Paesi ha espresso un parere positivo. Questo può aiutare a porre una serie di divieti e a far rispettare i diritti umani nelle esportazioni di armi. Trenta o quarant’anni fa, quando abbiamo cominciato ad occuparci di questi temi, mai avremmo immaginato di raggiungere il traguardo di un accordo internazionale. È estremamente significativo. Anche se il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto”.

Quali sono gli aspetti “deboli” del trattato?
“Purtroppo il trattato risente di condizionamenti posti da alcuni Paesi, ad esempio alcuni sistemi d’arma sono rimasti fuori. Sono stati considerati carri armati, veicoli corazzati, artiglierie di grosso calibro, aerei, elicotteri e armi leggere di piccolo calibro. Non vengono invece considerate le armi da fuoco ad uso civile – tipo le armi da caccia, di tipo olimpionico -, le armi elettroniche (radar, satelliti) e i trasferimenti di armi effettuati all’interno di accordi governativi o di programmi di assistenza e cooperazione militare. Quest’ultimo punto può essere un escamotage per riuscire a trafficare armi. Non poter sapere cosa viene venduto e a chi è un altro grave vulnus, perché la trasparenza è uno degli elementi più importanti. Altro punto debole del trattato sono le forme di controllo limitato sulle munizioni, sulle componenti di armi. Se non ci sono forme stringenti di controllo sulle munizioni, di cui tanto si è dibattuto, si alimentano conflitti”.

Quali sono ora i passaggi necessari?
“Si tratta di operare perché si possa arrivare, nel giro di poco tempo, a fare in modo che i Paesi firmatari, speriamo anche gli astenuti, lo ratifichino. Se questo avverrà, potremo dire che il 95% dei grandi produttori mondiali, Usa compresi, rientrano all’interno del trattato. Resta l’astensione, fra i grandi produttori, di paesi come la Russia e la Cina. Questo è un elemento oggettivo di debolezza. Anche perché la Cina è diventato il quinto esportatore mondiale”.

Si parla di un giro d’affari di 60-80 miliardi di dollari. Possibile che le industrie delle armi rinuncino così facilmente a questo business?
“Certamente la battaglia sarà sull’effettivo rispetto di queste norme. Non dimentichiamo che esiste il cosiddetto ‘mercato grigio’: le armi vendono vendute da un Paese in regola e poi, attraverso vie più o meno misteriose, giungono dove non dovrebbero arrivare. L’esempio classico è la vicenda siriana: ufficialmente l’Unione europea e gli Usa non vendono armi, ma queste arrivano comunque. È lì che deve attivarsi il controllo internazionale. L’inventiva umana non conosce limiti, certamente tentare un’azione del genere, almeno per l’Italia, è rischioso. Perché le sanzioni potrebbero portare all’esclusione dalla tabella delle aziende che possono produrre e commerciare armi. La maggior parte delle aziende ha come riferimento il governo, in modo diretto o indiretto. Bisognerà vedere come verrà implementata la normativa sia a livello internazionale, sia nazionale. Poi quale sarà la risposta delle industrie e dei governi, che formalmente si rendono disponibili ma poi, nei fatti, sono i primi a dare una mano per cercare di aggirare le norme legali. Abbiamo visto esportazioni di armi illegali dall’Italia alla Libia durante il conflitto. È stato posto il segreto di Stato su una partita di armi di seconda mano, la magistratura italiana non ha potuto indagare”.

Come si è comportato il governo italiano?
“Il governo italiano, nel complesso, ha mostrato grande sensibilità. Due settimane fa, prima della conferenza diplomatica, abbiamo incontrato il ministro Giovanni Brauzzi, che ha rappresentato l’Italia alla conferenza. Abbiamo fatto presenti le nostre critiche sulla bozza di trattato. L’Italia ha la legge 185/90, che è molto più avanzata del trattato. Anche l’Unione europea ha una normativa che ha preso esempio dalla nostra legge. È quindi interesse sia delle industrie italiane, sia europee, arrivare ad una normativa condivisa su scala internazionale, altrimenti si troverebbero svantaggiate rispetto ad altre aziende che non hanno determinati limiti”.

È utopica l’idea di un mondo senza più guerre?
“È un’utopia ma anche un cammino che si può percorrere per dare un contributo alla riduzione e alla letalità dei conflitti. Se gli uomini vogliono fare la guerra possono usare anche i machete, ma altra cosa è rifornirli abbondantemente di armi. Negli ultimi 20 anni, anche grazie a internet, l’opinione pubblica internazionale riesce a trasformare iniziative, che prima erano del tutto utopistiche, in realtà”.

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