Padre Sartorio, dall’elezione ai riti di Pasqua ci aiuta a rileggere le parole, le scelte e i gesti di papa Francesco?
“Ho l’impressione che Papa Francesco ci stia abituando a un nuovo stile celebrativo, sobrio ed essenziale, molto legato a gesti concreti e da tutti leggibili. Si veda la grande novità della lavanda dei piedi del Giovedì Santo, che ha fatto gridare allo scandalo i tradizionalisti perché nel gruppo dei dodici hanno trovato posto due donne, di cui una musulmana. Finora non ha tenuto discorsi programmatici nel senso usuale del termine, ma ha dispensato il Vangelo con una semplicità e una giovialità che hanno toccato il cuore di tutti. Il suo discorso sulla misericordia di Dio, al primo Angelus, tra l’altro citando il volume di un fratello cardinale, Walter Kasper, e l’insistenza a più riprese sullo stesso tema, sembra, abbiano incentivato la pratica della confessione pasquale. Insomma, in molte chiese le file davanti al confessionale si sono allungate. Parecchi non credenti, soprattutto in seguito alla benedizione silenziosa nell’incontro del 16 marzo con i giornalisti, stanno guardando a questo Papa con interesse, mentre il clima ecumenico è di tiepida primavera, positivo e incoraggiante”.
Ripensando, oggi, alla scelta del nome, sembra quasi uno scherzo che un cardinale gesuita abbia deciso di chiamarsi come il “Poverello d’Assisi”…
“Pochi sanno che san Francesco è stato anche modello e fondamento della conversione di sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù. E che il carisma gesuitico e quello francescano, insieme con quello domenicano, hanno ringiovanito la Chiesa in tempi traumatici. San Francesco e san Domenico nel travaglio che portò all’affermarsi di una nuova società, quella dei comuni e dei mercanti, sant’Ignazio nel tempo della controriforma e dell’apertura missionaria a nuovi mondi. Se consideriamo che il vescovo emerito di Roma porta il nome di Benedetto, un Santo impegnato, con tutto il monachesimo, nell’evangelizzazione dell’Europa, si può dire che assistiamo a un riscatto e a un rilancio dei grandi carismi della vita religiosa. Se nel post-Concilio i movimenti ecclesiali hanno in parte offuscato questi carismi, ora si va almeno verso un riequilibrio. E qui ricordo che i grandi carismi – come quelli francescano e gesuitico – non sono sequestrabili da nessuno, nemmeno dagli ordini religiosi che ufficialmente li incarnano, ma sono di e per tutta la Chiesa, quindi anche dei laici”.
A proposito dei grandi carismi: si può parlare di sintesi profonda in Papa Francesco tra spiritualità ignaziana e francescana?
“Da una parte, abbiamo ‘truppe scelte’, pronte alla missione e con un voto speciale di fedeltà al Papa, persone di alta preparazione intellettuale inserite nei luoghi di frontiera e di periferia, ma anche nei contesti dove si va elaborando la cultura del futuro, non solo teologica. Dall’altra, abbiamo le famiglie francescane che vivono la missione partendo dalla minorità e dalla fraternità: i frati sono innanzitutto minori (ai margini, lontani dai primi posti) e fratelli di tutti, di ogni essere umano e creatura. Il tratto gesuitico robusto e militante (nel senso testimoniale e genuinamente evangelico) s’integra bene con il tratto francescano gentile e fraterno, e viceversa. Una sintesi di grande effetto”.
Alcuni tratti del Papa, emersi dai primi gesti e dalle prime parole, sono la semplicità, l’umanità, l’umiltà e la dolcezza…
“Tutti sembrano contenti del nuovo Papa. A caldo è stato definito ‘una persona normale’, un Papa ‘della porta accanto’, bei complimenti per un ecclesiastico, anche per un Pontefice. Molti amici si sono congratulati con me, come francescano, come se in Conclave avessero eletto un mio parente, e ho intrepretato questo fatto come senso di vicinanza della figura di Papa Francesco alla gente di strada, all’uomo comune e spesso distratto delle grandi metropoli. Un volto amico e vicino a tutti era quello che mancava, anche a molti che non credono. Qualcuno che eserciti la paternità senza paternalismi, che ricordi a ogni uomo e donna quanto siano amati da Dio”.
Cosa l’ha maggiormente colpito dei discorsi pronunciati in questi giorni?
“Vado con la memoria all’imprinting delle sue prime parole pubbliche. Papa Francesco ha usato una parola che da noi, nel mondo occidentale, nemmeno le sinistre utilizzano più: popolo. Un messaggio chiaro, di fede, che richiama l’avventura comune di essere uomini e donne e l’importanza della dimensione comunitaria del credere, in comunione soprattutto con i poveri, i crocifissi della storia, i senza voce. In Occidente viviamo in una società individualizzata (così dice il sociologo Bauman), cerchiamo un’impossibile felicità solo individuale, e gli altri – quando non riusciamo a metterli a servizio della realizzazione del nostro io ipertrofico – sono concorrenti da eliminare. Che qualcuno ci parli di popolo, di comunità, e di coloro che ne stanno ai margini, non potrà che farci bene”.
“Abbiamo la ferma certezza – ha detto Papa Francesco al collegio cardinalizio – che lo Spirito Santo dona alla Chiesa, con il suo soffio possente, il coraggio di perseverare e anche di cercare nuovi metodi di evangelizzazione, per portare il Vangelo fino agli estremi confini della terra”. Un invito che sa di rinnovato impegno pastorale, anche per i mass media…
“Un’ora circa dopo il segnale di fumo bianco, la benedizione di papa Francesco dalla loggia della Basilica di San Pietro è stata impartita anche agli utenti collegati ai quattro capi del mondo con le ‘nuove tecnologie’. I giorni di (pre)Conclave sono stati mediatizzati come nessun evento precedente, e si è trattato di una vera e propria orgia mediatica, con circa cinquemila operatori del campo. Tutti inebriati e col naso in su, verso il comignolo della Cappella Sistina, dimentichi di chiassosità politiche e oscillazioni dello spread. Ogni pessimismo va evitato, ci ha detto Papa Francesco, anche perché arroccarsi in difesa non è, per la Chiesa, una buona soluzione. Se molta della nostra evangelizzazione appare senza risultato, inefficace e sterile, vanno cercati nuovi canali e soprattutto nuovi stili di evangelizzazione. Una Chiesa che negli ultimi anni non ha avuto buona stampa e che spesso è stata trattata come imputata globale, deve avere il coraggio di rialzare la testa, di riconoscere i propri errori e di ripartire. Anche se, bisogna riconoscerlo, la Chiesa non sarà ‘mai senza la Croce’ (così ha detto Papa Francesco nella sua prima omelia), pena la perdita della sua stessa identità, pena il cadere nella mondanità che è lo spirito del mondo contrapposto a quello di Cristo. I media non sono (solo) un mezzo per evangelizzare, ma il contesto – o almeno uno dei principali – in cui l’evangelizzazione avviene, un nuovo luogo antropologico. Comunica bene chi fino in fondo è se stesso, semplice e profondo al contempo, doti che a Papa Francesco non mancano. Sarà un ottimo comunicatore globale”.
Il Pontificato è iniziato nel contesto del 50° del Concilio e dell’Anno della fede, voluto dal Papa emerito, Benedetto XVI. Due eventi che sono ritornati spesso negli incontri di questi primi giorni. Basta pensare agli inviti alla collegialità, pastoralità, essenzialità ed evangelizzazione. E forse anche presenti in quel nome: Francesco…
“Una serie di coincidenze suggestive. Il Vaticano II è il Concilio nel quale si vive (prima d’inserirla nei documenti ufficiali) la collegialità dei vescovi, è un evento di Chiesa nel quale teologi e pastori armonizzano i rispettivi carismi per il bene della comunità cristiana, è il primo Concilio – così scrive Karl Rahner – non solo europeo, a respiro davvero mondiale. Un evento che troverà una fedele traduzione latinoamericana nelle conferenze ecclesiali di Medellín (1968) e Puebla (1979), con attenzione particolare al mondo dei poveri o, meglio, degli impoveriti, attraverso la famosa opzione preferenziale per i poveri. Da meri destinatari dell’annuncio, i poveri diventano un soggetto in grado di convertire al Dio della vita e della grazia, per cui la conversione ai poveri, ai fratelli sofferenti, replica lo stile di Dio e diventa per ciò stesso Vangelo in atto. In tal senso, anche la fede, oltre a essere profondo vissuto interiore e relazione amorevole con Dio, diventa un atto pratico di solidarietà con gli uomini, a partire dagli ultimi, dai derelitti, dalle vittime. Ci sono molti accenti francescani in tutto questo: san Francesco si converte a Dio incontrando il lebbroso, il reietto dalla società, l’ultimo anello nella catena relazionale, l’intoccabile, e tutta la sua vita è tesa a fare dell’altro, qualsiasi altro (anche il nemico: ricordiamo il simbolismo del lupo di Gubbio), un fratello da amare”.