Nel linguaggio comune, la parola oratorio “richiama un’esperienza di vita buona legata ai tempi della giovinezza”. Oggi, forti di 450 anni di esperienza educativa, gli oratori sono una realtà cui guardano con crescente attenzione non solo la comunità ecclesiale, ma anche le istituzioni civili, come dimostrano diversi interventi legislativi.
Parte da questa “fotografia” la Nota pastorale della Cei sugli oratori, dal titolo “Il laboratorio dei talenti”.
Il documento, elaborato dalla Commissione episcopale per la famiglia e la vita e dalla Commissione episcopale per la cultura e le comunicazioni sociali, si propone di “riconoscere e sostenere il peculiare valore dell’oratorio nell’accompagnamento della crescita umana e spirituale delle nuove generazioni” e di “proporre alle comunità parrocchiali, e in modo particolare agli educatori e animatori, alcuni orientamenti”. L’ottica scelta è quella della “pastorale integrata”, come antidoto al “relativismo pervasivo” dei processi educativi. La “sfida” è “far diventare gli oratori spazi di accoglienza e di dialogo, dei veri ponti tra l’istituzionale e l’informale, tra la ricerca emotiva di Dio e la proposta di un incontro concreto con Lui, tra la realtà locale e le sfide planetarie, tra il virtuale e il reale, tra il tempo della spensieratezza e quello dell’assunzione di responsabilità”.
Ponti tra la chiesa e la strada. Gli oratori non nascono come progetti “fatti a tavolino” ma dalla capacità di “lasciarsi provocare e mettere in discussione dalle urgenze e dai bisogni del proprio tempo”, con la stessa passione dei grandi “maestri dell’educazione”: san Filippo Neri, san Giovanni Bosco, san Carlo Borromeo… Gli oratori non solo limitati “al recupero, all’istruzione o all’assistenza”, ma sanno “valorizzare e abitare la qualità etica dei linguaggi e delle sensibilità giovanili”, coniugando “prevenzione sociale, accompagnamento familiare e avviamento al lavoro”. In quest’ottica, oggi gli oratori “devono essere rilanciati anche per diventare sempre più ponti tra la Chiesa e la strada”, come li definiva Giovanni Paolo II.
Cittadini responsabili. Se la “prossimità” è lo stile dell’oratorio, uno dei suoi obiettivi primari è contribuire “alla crescita di cittadini responsabili”. Di qui l’importanza di “valorizzare il ruolo delle famiglie e sostenerlo, sviluppando un dialogo aperto e costruttivo” e facendo dell’oratorio un “ambiente di condivisione e di aggregazione giovanile, dove i genitori trovano un fecondo supporto per la crescita integrale e il discernimento vocazionale dei propri figli”. Rispetto agli altri luoghi formativi, l’oratorio “si caratterizza per la specifica identità cristiana”, ed “attraverso i linguaggi del mondo giovanile promuove il primato della persona e la sua dignità, favorendo un atteggiamento di accoglienza e di attenzione, soprattutto verso i più bisognosi”, ma anche verso giovani appartenenti ad altre culture e religioni.
Un laboratorio anche “digitale”. “Un variegato e permanente laboratorio di interazione tra fede e vita”: questa la definizione di oratorio presente nel testo, in cui si raccomanda di offrire ai giovani “percorsi differenziati” che sappiano attingere a tutti i linguaggi e gli ambienti giovanili, compreso il web e i “new media”, con un occhio speciale ai “nativi digitali”. Soprattutto a loro, l’oratorio “garantisce uno spazio reale di confronto con il virtuale per capirne profondamente potenzialità e limiti”.
Il primato della relazione. Ma l’oratorio “educa ed evangelizza” soprattutto “attraverso relazioni personali autentiche e significative”, che sono la sua “vera forza”, perché “nessuna attività può sostituire il primato della relazione personale”. “Anche laddove i social network sembrano semplicemente prolungare e rafforzare rapporti di amicizia – si raccomanda nel documento – appare necessario aiutare i giovani che abitano il mondo della rete a scendere in profondità coltivando relazioni vere e sincere”, in un tempo “segnato dalla consumazione immediata del presente e dal continuo cambiamento, dalla frammentazione delle esperienze”. Servono “relazioni autorevoli”, per “aiutare i ragazzi a fare sintesi”, e l’oratorio può diventare “il luogo unificante del vissuto”, aiutando chi lo frequenta “a superare il rischio, oggi tutt’altro che ipotetico, della frammentazione e della dispersione”.
Accoglienza e “restituzione”. L’”accoglienza” è la cifra dell’oratorio, il suo “potere di attrazione”, ma “non può mai comportare disimpegno o svendita dei valori educativi”. La prospettiva adottata è quella della “restituzione”: “tutti, in modi e situazioni diverse, hanno ricevuto del bene da qualcuno. Tutti, quindi, ognuno secondo le proprie possibilità e capacità, sono chiamati a restituire tale bene diventando dono per gli altri”. Famiglia, scuola, sport sono i luoghi principali attorno a cui costruire “alleanze educative”, anche per fare dell’oratorio un “laboratorio di cultura” e “partecipare al dibattito pubblico sui temi e compiti educativi della società civile e della comunità ecclesiale”.
Non solo sport. Per creare quel tipico “clima di famiglia” che ne ha accompagnato l’evoluzione, i sacerdoti – e non solo quelli giovani, perché “l’efficacia educativa non coincide con la vicinanza generazionale fra educatori e ragazzi” – devono “stare” in oratorio, per “offrire un accompagnamento umano e spirituale ai ragazzi e agli educatori”. Servono inoltre “figure stabili di riferimento”, come “laici preparati”. Tra le proposte più consolidate dell’oratorio, c’è l’attività sportiva, che nel nostro territorio si avvale anche della “presenza capillare” del Centro sportivo italiano, ma non mancano attività come musica, teatro, danza… Fin dalle origini, inoltre, l’oratorio “ha posto attenzione alle necessità e alle povertà delle nuove generazioni”: un ruolo di “prevenzione”, più che di contrasto del “disagio sociale”, nel quale gli oratori sono sollecitati a perseverare, grazie alla loro capacità di “stare anche sulla strada”.
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