“La Chiesa sente l’urgenza di andare incontro alla povertà” e dare “indicazioni di speranza”, consapevole che “senza un buon governo non si può realizzare una buona società”. Così si è espresso monsignor Agostino Superbo, presidente della Conferenza episcopale di Basilicata, intervenendo il 13 aprile a Melfi al convegno sul tema “Lavoro e famiglia: speranza e futuro per il Mezzogiorno. Dal Concilio vaticano II ad oggi” il quattordicesimo dei sedici appuntamenti promossi dall’Azione Cattolica italiana in preparazione della Settimana sociale di Torino.
Offrire indicazioni di speranza. “Protagonista del progresso del Mezzogiorno – ha proseguito il vescovo Superbo – sarà sempre e solo il Mezzogiorno, che può dare un contributo per i valori di cui è portatore: rapporti genuini e autentici, solidità della famiglia”. In una regione, la Basilicata, che “perde mille abitanti l’anno, per lo più giovani e laureati”, occorre per il presidente della Ceb “offrire indicazioni di speranza” mediante “due punti forti, la famiglia e il lavoro, garanzia di dignità per la famiglia” e “luogo di umanizzazione” che “va tenuta forte perché fondamento della Chiesa e di tutta la società”. Per il vescovo Domenico Sigalini, assistente ecclesiastico generale di Ac, la famiglia deve rimanere “sempre soggetto” e “va rispettata come tale, non come un target per i voti o per il sostegno che dà”; gli ha fatto eco il presidente dell’Ac Franco Miano, parlando di “binomio strettissimo” a proposito di lavoro e famiglia: “riferimenti essenziali per lo sviluppo della società e del futuro”, ha spiegato facendo appello alla “responsabilità” e alla “testimonianza” della “gioia di essere famiglia”, nonostante problemi e fragilità.
Sfatare i miti sulla famiglia. “Il lavoro incarna e continua nel tempo la forza creatrice di Dio”, e la famiglia “genera, sostiene e rafforza le capacità creative delle persone” ma, ha sottolineato Vera Negri Zamagni, docente di Storia economica dall’università di Bologna, “ci sono alcuni miti da sfatare”. La famiglia ideale, ad esempio, “non è quella specializzata, in cui la donna è l’angelo della casa e l’uomo presidia il foro esterno”. E se il matrimonio, ha proseguito Negri Zamagni, va concepito come “un punto di partenza, non di arrivo”, con l’emancipazione femminile “è possibile costruire una famiglia de-specializzata, dove c’è partecipazione delle donne al lavoro” e “partecipazione dell’uomo alla famiglia”. Laddove è sviluppato il lavoro femminile “c’è una più alta natalità” e “anche dal punto di vista educativo”, si riscontra “maggiore equilibrio”. La famiglia è “attanagliata da una duplice crisi”, per il passaggio “da una configurazione specializzata ad una multitasking” e per “la perdita del significato univoco della sua natura”. Dunque in primo luogo, ha spiegato la docente, “occorre accompagnare le donne fuori casa e gli uomini in casa”, secondariamente, è necessario “modificare l’organizzazione del lavoro e della famiglia, per permettere a marito e moglie di trovare tempi giusti da dedicare alle attività di lavoro e di famiglia”. In quest’ottica di “armonizzazione”, un impegno particolare è riservato alle famiglie di cristiani, invitati a “insegnare la gratuità, la reciprocità e la giustizia”.
Dalle origini in poi. L’eredità del Concilio Vaticano II nel magistero sociale della Chiesa è stata evidenziata da Luca Diotallevi, docente di Sociologia a Roma Tre e vicepresidente del Comitato scientifico delle Settimane sociali: “Come ha detto Benedetto XVI nel dicembre del 2005, il profondo rinnovamento nella Dottrina sociale della Chiesa consiste nel tornare alle origini per andare oltre”. Superando, così, la visione “naturalista e statalista” tipica della “Rerum novarum” per arrivare alla dottrina della “Caritas in Veritate”, che interpreta la “via istituzionale alla carità come incessante impegno dei credenti per una civitas poliarchica”. Diotallevi ha poi richiamato il “dovere strettissimo” che ciascun cristiano ha di “difendere i diritti di tutti e soprattutto dei più deboli”, auspicando la riscoperta del “carattere agonistico e militante del cristianesimo”, per “rispondere al compito di ogni formazione sociale: partecipare in modo specifico alla ricerca del bene comune, per come ciascuno può e secondo le proprie competenze”. Questa, forse “non è una prospettiva che ci coccola”, ma richiama, ha concluso, la “responsabilità necessaria” ad affrontare la “sfida che il momento pone” e a “conciliare libertà e fede”.