Taranto si sveglia tramortita. È il giorno dopo il referendum consultivo sulla chiusura totale o parziale dell’Ilva. Solo il 19,52% degli aventi diritto (i residenti in città e non anche quelli dei paesi limitrofi, ndr) va alle urne per dare un voto che è più un parere, non vincolante ma soltanto consultivo. Ai tarantini viene chiesto di rispondere con un sì o con un no a due quesiti: la chiusura totale o quella della sola area a caldo del siderurgico. I numeri dell’affluenza ai seggi confermano e paradossalmente migliorano i dati della partecipazione alle manifestazioni di piazza. A quella maggiormente sentita, del 15 dicembre scorso, aderirono 20mila persone a cui, se si considerano i numeri, se ne sono aggiunte diecimila che hanno disertato una passeggiata al mare, nei primi giorni di caldo, per esprimere la loro idea nella cabina elettorale. Trentamila votanti sono pochi perché si parli di successo, ma restano uno zoccolo duro da cui partire per pensare al futuro della città. Colpisce, ma a pensarci bene neanche tanto, che nei quartieri a vocazione operaia, quelli più a ridosso della fabbrica e maggiormente esposti ai rischi dell’inquinamento, l’affluenza sia stata minore rispetto al resto della città. Chi vota in sostanza lo fa per dire sì alla chiusura. I no preferiscono non esprimersi, e disertano.
Sembra dunque che a Paolo VI e ai Tamburi (rispettivamente 14,5% e 9,7% di votanti) la questione non interessi o, peggio, venga temuta per la perdita del posto di lavoro. Ancora una volta dunque nella mente dei tarantini aleggia l’amletica domanda: “meglio il lavoro o la salute?”. Tra i non votanti, però, c’è anche una fetta di ambientalismo e un’area moderata, che vedono nella piazza piena piuttosto che nella partecipazione a un tavolo istituzionale la risposta ai problemi della città. Al di là dei risultati, dunque, emerge chiaramente che Taranto non ha creduto allo strumento del referendum per provare a far sentire la sua voce e ha preferito trincerarsi nei distinguo piuttosto che nel desiderio comune di migliorarsi e migliorare culturalmente e socialmente, oltre che a livello ambientale. Sull’esito del referendum ha di certo influito poi la decisione della Corte Costituzionale, che nei giorni scorsi ha dichiarato la 231 del 2012, una legge a tutti gli effetti. La Procura jonica si era appellata alla Consulta, ritenendo la “salva-Ilva” incostituzionale in 17 punti. Per la Corte, riunita per ore in Camera di consiglio, la legge invece non viola la Costituzione. “Le sentenze non si commentano, si applicano” – così ha risposto ai giornalisti il Procuratore capo della Repubblica di Taranto, Franco Sebastio. “L’azienda non ha più alibi per non applicare, a norma di legge, l’Autorizzazione Integrata Ambientale che è parte integrante dell’emendamento” – hanno chiosato i sindacati.
Ora toccherà alle istituzioni locali vigilare affinché quanto contenuto nella legge venga effettivamente rispettato dall’azienda. Intanto si addensano nuove nubi su Palazzo di città: la Procura di Taranto avrebbe aperto un’inchiesta, stralcio di “Ambiente svenduto” (che svela i rapporti tra l’Ilva e gli alti poteri cittadini, ndr), per stabilire i legami tra l’azienda ed il sindaco jonico, Ippazio Stefàno. Ad occuparsene è il sostituto procuratore Enrico Bruschi. Secondo gli inquirenti “Girolamo Archinà (a capo delle relazioni istituzionali di Ilva, arrestato il 26 novembre scorso, ndr) avrebbe compiuto un’oscura opera di proselitismo pro-Ilva, finalizzata a scongiurare l’indizione del referendum cittadino”. Quando nel 2007 vennero presentate a Stefàno le 12mila firme con cui si chiedeva la consultazione referendaria, a cui è stato dato il via libera il 12 ottobre 2011 dal Consiglio di Stato, ai dirigenti della fabbrica il voto faceva paura. Lo dimostrano le intercettazioni tra sindaco e Archinà, con il primo cittadino a tranquillizzare sulla data del referendum, che a suo dire si sarebbe svolto molto in là nel tempo. Così è stato. Destino ha voluto che il voto arrivasse a giochi fatti.
Ora Taranto è chiamata a sollevare la testa per continuare a chiedere che la legge, più restrittiva del passato, venga effettivamente rispettata dal siderurgico e per fare in modo che nessuna ordinanza sindacale, come avviene ancora oggi, vieti ai bambini del quartiere Tamburi, di giocare nei giardinetti sotto casa per rischio di contaminazione da inquinanti.