Un solo mese di pontificato. Eppure Papa Francesco in questi primi giorni ha saputo costellare il suo agire di significativi “segni ecumenici” che “fanno sperare”. È il giudizio, sicuramente ponderato, del cardinale Walter Kasper, che al dialogo ecumenico ha dedicato anni della sua vita prendendo nel 2001 la guida del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani e tenendo le redini vaticane del dialogo per 9 anni, fino al 2010 quando per motivi di età ha lasciato il testimone al cardinale svizzero Kurt Koch. Il suo nome, poi, ha fatto recentemente il “giro del mondo”, perché nel suo primo Angelus, Papa Francesco lo ha citato per il suo libro sulla misericordia. Dunque i gesti ecumenici del Papa visti dal cardinale del dialogo: da quel suo primo presentarsi al popolo di Dio come “vescovo di Roma” alla scelta del nome Francesco, il santo del dialogo. Venuto a Roma per incontrare il Papa, anche il presidente della Chiesa evangelica in Germania (Ekd), il pastore e teologo Nikolaus Schneider, ha confidato ai giornalisti di essere rimasto colpito dalle parole con cui il Pontefice si è presentato sulla loggia delle benedizioni, definendosi “vescovo di Roma”. “Rivelano – ha detto – come da subito il Papa abbia messo in secondo piano l’imponenza del suo ministero sottolineando la dimensione di servizio che svolge il ruolo: a servizio degli altri, a servizio degli uomini”. È poi di pochi giorni fa, la decisione di nominare una rosa di cardinali (scelti anche per provenienza geografica) con il compito di “consigliarlo” nel governo della Chiesa e “studiare” la riforma della Curia. Un atto che va sotto il segno della collegialità, altro tema particolarmente caro al dialogo con le Chiese. Ne parliamo con il cardinale Walter Kasper.
Quanto è importante la definizione del ministero petrino come “vescovo di Roma” per il dialogo ecumenico?
“Il titolo di ‘vescovo di Roma’ è, fra tutti i titoli del Papa, quello teologicamente fondamentale. Da vescovo di Roma il Papa è successore di Pietro e come tale pastore universale della Chiesa. Soprattutto per gli ortodossi tale titolo è importante. Perché s’innesta nella comune tradizione dell’Est e dell’Ovest che, secondo Ignazio di Antiochia (secondo secolo), citato da Papa Francesco quando si è affacciato sulla Loggia, vede la Chiesa di Roma presiedere nell’agape (amore). Anche per i luterani il titolo ‘vescovo di Roma’ va bene. Martin Lutero cita e riconosce questo titolo negli ‘Articoli di Schmalkalden’ (1537), che del resto sono molto polemici. Così esiste almeno un fondamento condiviso, da cui possiamo partire nei dialoghi”.
La scelta del nome Francesco è piaciuta al mondo intero. Come è stata recepita in ambito ecumenico? E quale indicazione dà al dialogo?
“L’eco all’elezione di Papa Francesco è stata molto positiva sia in ambito ortodosso sia in quello protestante. Il nome Francesco esprime tutt’un programma. Evoca, cioè, il ritorno al Vangelo e la prospettiva di ricominciare dal Vangelo di Cristo, come hanno voluto san Francesco e sant’Ignazio di Loyola e, in un altro modo, anche Lutero. Ciò implica la rinuncia a tutto ciò che può assimilare a una corte imperiale, come ha indicato Papa Francesco dal primo momento del suo pontificato. Sicuro, finora sono solo segni, ma segni che ci fanno sperare”.
I cardinali sono andati a “prendere il Papa alla fine del mondo”. E tra i primi atti, Francesco ha nominato un gruppo ristretto di otto cardinali dei cinque continenti, per aiutarlo nel governo della Chiesa universale e per la riforma della Curia. Ritiene che sia un gesto che vada nella direzione di una maggiore collegialità?
“Oggi l’epoca dell’eurocentrismo è definitivamente passata. Però il nostro mondo globalizzato e in rapidissimi cambiamenti è molto complesso. Così il Papa per il suo governo ha bisogno di consultori autorevoli di tutti i continenti con le sue culture molto diversificate. Bisogna adesso realizzare più espressamente l’idea della collegialità e dell’unità nella molteplicità, come l’ha espressa il Concilio Vaticano II”.
Tra la gente, in questi giorni, si respira una ritrovata “amicizia” con la Chiesa, un entusiasmo nuovo che non si vedeva forse dagli anni del Concilio. Lei è d’accordo con questa visione di speranza per la Chiesa di oggi?
“Decisamente sì. Ho sperimentato il Conclave come un evento profondamente spirituale; c’era la sensazione di uno soffio dello Spirito Santo, che adesso si è allargato al popolo di Dio. C’è una visione di speranza per la Chiesa. D’altra parte non siamo ingenui. Il Vangelo incontrerà sempre opposizione e così – ne sono sicuro – anche questo Papa sarà ben presto bersaglio di attacchi. Perciò il Papa ha bisogno del sostegno e delle preghiere di tutte le persone di buona volontà”.