di Giovanna Pasqualin Traversa
Stereotipi e luoghi comuni duri a morire: l’uomo dominatore e la donna sottomessa, l’uomo aggressivo e “seminatore” di vita; la donna passiva e custode di questa stessa vita. Con le loro degenerazioni: l’uomo che stenta a crescere e identifica l’amore con il possesso; la donna che “ama” troppo e si lascia annientare. Storie di ieri e di oggi, che affondano le radici nella “nostra geografia mentale, costruita sulla matrice unica del mondo greco che ci appartiene e ci permea con la sua simbologia e la sua cultura fondamentalmente misogina”. Parte da lontano Dacia Maraini, scrittrice, poetessa, saggista e autrice di teatro, intervenuta ieri sera all’Accademia dei Lincei ad un incontro su “La violenza sulle donne”. Un fenomeno che si può arginare, assicura, “solo con un’azione sul piano culturale”.
Cultura misogina. “I luoghi comuni – spiega – vogliono la violenza insita nella natura dell’uomo che la esercita sui più deboli”: un “insidioso concetto di razzismo che riemerge di continuo con grande virulenza soprattutto in relazione ai generi”. Pietra miliare, secondo Maraini, il passaggio dalla cultura greca arcaica dei pelasgi (popolazioni proto-elleniche, ndr), “che riconoscevano nella dea Eurinome il principio dell’universo, alla cultura greca classica, fondamentalmente misogina”. Ed è proprio l’uccisione di Clitennestra per mano del figlio Oreste, narrata da Eschilo, a marcare, “colpendo la maternità, principio allora intoccabile”, il cambio di paradigma, “il passaggio dal matriarcato al patriarcato”. Dal processo contro Oreste “emergerà il capovolgimento del rapporto fra i sessi: non più il ventre materno a dare la vita, ma il seme paterno. Il corpo femminile ha solo la possibilità di conservarla. All’uomo dunque il controllo sulla vita (procreazione e controllo della donna) e sulla morte (guerra). Volenti o nolenti – fa notare la scrittrice -, siamo figli di questa cultura che continua a pesare sulla nostra memoria collettiva e orizzontale, e si incrocia continuamente con la memoria verticale di ognuno di noi”.
Cristo e la Chiesa. Se a questo si aggiunge la pervasività della nostra “società del mercato”, abitata “non da cittadini ma da ‘compratori’, preferibilmente privi di memoria e coscienza”, ecco che “si ritiene di potere comperare sentimenti, appartenenze, idee. L’uomo stesso diventa merce; non c’è quindi da stupirsi se una società emancipata e scolarizzata come la nostra continua paradossalmente a generare violenza contro i più deboli, donne e bambini”. Nel ripercorrere la parabola del femminile negli ultimi duemila anni, Maraini osserva che “è stato Cristo a dare per primo dignità di pensiero e parola alle donne. Molte lo hanno seguito mentre era in vita; sono donne la maggioranza dei martiri cristiani” perché “quando la cultura riconosce loro dignità e possibilità di parola propria, le donne si appassionano e si spendono con coraggio fino all’eroismo”. Ma poi una brusca retromarcia fa “incartare” la Chiesa, e al riguardo la scrittrice cita san Paolo, i Padri, l’aristotelismo medioevale e rinascimentale, l’Inquisizione, fino ad arrivare alla “Rerum novarum” di Leone XIII. Non è da meno la cultura “laica” con il suo percorso storico plurisecolare segnato anch’esso “dall’ossessione del controllo sociale della donna”.
Questione di linguaggio. Così “come – secondo Maraini – il linguaggio non è neutro: riflette la realtà, la produce e le dà forma. Anche quando dà voce ad un genere apparentemente neutro, si tratta in realtà di un genere ‘maschile’ dato come universale”. Di qui “il sostantivo ‘uomo’ per indicare tutto il genere umano”. La grammatica stessa è “a dominanza maschile; un solo uomo tra mille donne farà declinare aggettivi e sostantivi al maschile”. E ancora: “come spiegarsi che nelle lingue arcaiche il sole, simbolo di forza e di vita era femminile? Oggi è così solo in tedesco (‘die Sonne’)”. Il linguaggio, insomma, “riflette la conformazione di pensiero di cui siamo parte, però dal suo interno è possibile metterne in evidenza le incongruenze e tentare di forzarle, come la declinazione al femminile del nome di alcuni mestieri. A volte con risultati goffi – vigilessa, soldatessa, ministra – ma significativi”. Particolari non irrilevanti per Maraini: tutto concorre alla complessità del quadro in cui si collocano “i raccapriccianti casi di violenza che si susseguono inesorabilmente negli anni e ai quali stiamo assistendo anche in questi giorni”. Nel 2012, afferma “125 donne sono state uccise da ex fidanzati o mariti”. Pur nella diversità dei casi, “uomini che identificano l’amore con il possesso, con il diritto di proprietà, e quando la donna decide di andarsene sentono la propria idea di virilità entrare in crisi”. Di qui il “terremoto emotivo” e “l’incontrollabile desiderio di distruzione, e a volte autodistruzione, che trasformano l’uomo abbandonato in assassino, spesso successivamente in suicida”. E i casi di violenza domestica? Gli stupri? “Legati a forme malate di possesso, ad una sostanziale mancanza di rispetto per la donna, ad arretratezza culturale”. Violenza, fa notare Maraini, è anche lo stupro impunito di Montalto di Castro, “dove nel 2007 il paese si è schierato dalla parte degli otto violentatori, allora quindicenni, rimasti sempre in libertà, liquidando la violenza di gruppo come una ragazzata”, anche se il ministro della Giustizia Paola Severino vuole la riapertura del caso. Oppure, ricorda, “all’uscita di un altro processo per stupro, le madri di giovani maschi che urlavano contro la vittima quasi per difendere cautelativamente i propri figli da ipotetiche accuse future. Perché, sotto sotto, la vittima di stupro è colpevole. E’ lei che se l’è andata a cercare”. Per la scrittrice “occorre agire sul piano culturale iniziando ad insegnare fin da piccoli la parità e il rispetto l’uno dell’altro”. Scuola e famiglia: è lì che “deve partire l’educazione dei sentimenti. Educazione e rispetto non si impongono per legge; occorrono percorsi al di fuori delle strade ufficiali, ma i tempi saranno lunghi perché è difficile uscire da una cultura arretrata e condivisa a livello sociale”.