“Sono diventato un soldato, ho messo in gioco la mia vita per i valori della mia anima”: scriveva così Armin Theophil Wegner, giovane soldato tedesco, volontario nel servizio sanitario, prima sul fronte polacco poi in Medio Oriente nell’aprile del 1915. La Germania, allora era alleata con la Turchia. Nel 1915 Wegner aveva 29 anni quando la tragedia irrompe nella sua esistenza segnandola per sempre: la tragedia ha il volto sofferente e straziato dei deportati armeni nel deserto della Mesopotamia, donne, vecchi, bambini, innocenti. Wegner non chiude gli occhi davanti al dramma, non dimentica quelle facce ed eludendo le ordinanze e i divieti delle autorità turche e tedesche dirette a impedire la diffusione di notizie sulle carovane dei deportati, entra nei campi, scatta foto, raccoglie lettere di supplica recapitandole alle ambasciate o ai consolati e scrive un diario che per il popolo armeno costituisce una testimonianza preziosa. In lui la tragedia armena si unisce a quella ebraica, come testimoniano le lettere indirizzate a Wilson nel 1919, per chiedere una patria per gli armeni e a Hitler nell’aprile del 1933, per invocare la fine dei comportamenti antiebraici del regime. Tanto impegno ripagato con un arresto e con l’esilio in Italia ma anche con un silenzio lungo anni, squarciato nel 1965, in occasione della commemorazione del 50° anniversario del genocidio degli armeni, quando la stampa scopre le sue foto, il suo ruolo di testimone. Nel 1968 viene insignito del titolo di “giusto” dallo Yad Vashem in Israele e dell’ordine di San Gregorio a Yerevan, capitale dell’Armenia, dove una strada porta il suo nome. Armin T. Wegner, morto a Roma nel 1978 all’età di 92 anni, è un testimone. Il 21 aprile 1996 Pietro Kuciukian, console onorario d’Armenia in Italia, e Mischa, il figlio di Wegner, ne hanno trasportato le ceneri a Yerevan, tumulandole nel Muro della Memoria di Dzidzernagapert (la Collina delle rondini).

La storia di Wegner è quella di tanti altri Giusti che si sono adoperati per salvare la vita agli armeni durante il genocidio (1915-1923), il primo del XX secolo, perpetrato dal governo dei Giovani turchi, al potere dal 1908. Nella memoria del popolo armeno, ma anche nella stima degli storici, nel Metz Yeghern, il “Grande Male”, perirono i due terzi degli armeni dell’Impero Ottomano, all’incirca 1.500.000 persone. Molti furono i bambini islamizzati e le donne inviate negli harem. Il 24 aprile di ogni anno il popolo armeno ricorda l’anniversario del Metz Yeghern. In Armenia una folla immensa confluisce nella capitale Yerevan per la processione a Dzidzernagapert, dove sorge il Mausoleo che ricorda le vittime dello sterminio. Al termine della cerimonia vengono tumulate nel Muro della Memoria le ceneri, o un pugno di terra del luogo di sepoltura di un Giusto, in segno di gratitudine del popolo armeno. Questo luogo della memoria è stato creato nel 1995 dal direttore del museo, Laurenti Barseghian, e da Pietro Kuciukian, fondatore del Comitato internazionale “I Giusti per gli armeni” e console d’Armenia in Italia. “È il 98° anniversario del genocidio degli armeni e ogni armeno si mobilita. Gli anniversari fanno nascere interrogativi – spiega il console a Daniele Rocchi (Sir) – ma anche tanta caparbietà nel ricordare. Sopravvivere a un genocidio è ricominciare a vivere. Dimenticare, non aprire con i figli la pagina del passato, il “Grande Male”. Ma questo ‘è stato’, non puoi cancellarne le tracce. L’indimenticabile esiste e riemerge come memoria viva di generazione in generazione”.

Ma come è possibile che un popolo, presente da più di 2500 anni su un territorio crocevia tra Oriente e Occidente, a quasi un secolo di distanza “insista nel ricordare in maniera tanto determinata il crimine” che ha tentato di cancellare ogni sua traccia? Quale il segreto di tale insistenza? “Perché dimenticare?”, risponde invece il console, “è vero che ogni famiglia armena in patria, nelle Americhe, in Asia, in Europa o in Oceania ha fra i suoi nonni un trucidato o un sopravvissuto traumatizzato, ma ciò non è sufficiente a spiegare tanta caparbietà nel ricordare. Non è più una questione di armenità, di appartenenza etnica”. Le domande di Kuciukian si accavallano, una dietro l’altra: “Se il governo turco ammettesse di avere eliminato quasi un’intera etnia presente sul suo territorio, ciò farebbe giustizia? Se il governo turco risarcisse gli eredi delle vittime, riconsegnando loro villaggi, case, ospedali, scuole, chiese, istituzioni arbitrariamente sottratte, basterebbe? Cosa vuole un popolo che ha subito un genocidio? Giustizia? Riconoscimento? Risarcimento? Siamo una piccola nazione che neppure esisteva fino a pochi anni fa, poiché facevamo parte dell’Unione sovietica, che deve lottare contro un gigante. Ciò non toglie che ci sia un ideale di giustizia, una ricerca di risarcimento motivatissima da ricercare con pazienza”. Ma non basta. No. “Il mio popolo vuole capire”, ecco la risposta del console. Capire cosa? “Dove è l’origine del male”. “La Bibbia narra di Caino e Abele – aggiunge il console – come leggiamo questa pagina? Come comprendiamo l’intreccio originario e misterioso di bene e male? Ogni essere umano può trovare un senso anche nella sconfitta, nella rovina, nella catastrofe, con l’esercizio del pensiero. Ogni situazione buona o cattiva può costituire un’occasione per intraprendere una nuova strada. Nuovi pensieri, nuovi sforzi di conoscenza, nuovi comportamenti. Sulle strade della deportazione, nei campi di sterminio, nei gulag i Giusti, come Wegner, ci testimoniano che ad ogni male possiamo opporre un pezzetto di bene che conquistiamo in noi stessi”.

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