Se ci guardiamo attorno, anche in questa nostra zona, purtroppo vediamo capannoni dismessi, serrande di laboratori abbassate, cartelli con scritte “vedensi”…
Se poi pensiamo alle persone che conosciamo: quante hanno perso il lavoro? Quanti, specie giovani, ma non solo, lo cercano e non lo trovano? Quanti vivono ogni giorno la precarietà per uno stipendio che non arriva o per un contratto che scade?
Ed allora viene da chiedersi se si può far festa quando nel cuore abita la paura, quando in molte case si affaccia il terribile male della depressione, quando la disperazione sembra avere la meglio sulla speranza?
Mi sono arrivate voci che è stata in forse anche questa tradizionale festa del lavoro nella zona Agraria! Sarebbe stata davvero una cosa tristissima.
Credo che sia un dovere celebrare la festa del lavoro, proprio nella sua massima assenza, se non altro perché essa è motivo di incontro, di confronto e anche di riflessione. Da ogni crisi si esce solo insieme e mai pensando, come spesso oggi avviene, “ne esco io, se ci ricaccio l’altro!”.
Certamente non si tratta soltanto di organizzare gare sportive o di briscola, ma di riflettere, studiare, entrare in una ‘sapienza’ capace, non di mettere pezze al sistema, ma di proporne uno alternativo. Il mondo così come è organizzato non è assolutamente necessario.
Come vorrei che quando si parla dell’Agraria, di Porto d’Ascoli si potesse dire quanto si diceva di Gesù a Nazaret, come abbiamo ascoltato dal Vangelo di oggi: “Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname?”.
L’uomo che lavora non è una ‘risorsa’, un ‘esubero’, un ‘esodato’, una ‘capacità produttiva’, ma prima di tutto una persona capace di pensieri, di sentimenti, di cultura! Una persona capace di memoria e di coscienza critica. Non si trovano soluzioni dietro alle slot-machine, né in qualche potente raccomandazione, tantomeno affidandosi alla fortuna di un “gratta e vinci”!
Dalla crisi si esce cominciando a pensare, a progettare insieme, ad investire i propri talenti. Per questo occorre che i nostri giovani studino, e studino molto, siano incoraggiati a percorrere strade nuove e, se necessario, facciano esperienze anche lontano dalla propria terra.
Immersi in una crisi, che non ha memoria e non accetta critiche, in questo momento vorrei con voi andare fino a Nazareth, alla bottega di un carpentiere, di un falegname di nome Giuseppe, che oggi celebriamo come “lavoratore”.
Nella sua storia mi sembra di individuare tre parole significative ed interessanti anche per noi oggi: annuncio, denuncia e rinuncia.
Giuseppe aveva un suo progetto: un amore, una famiglia, una casa, dei figli. Eppure tutto questo svanisce di fronte ad un annuncio che apparentemente fa fallire tutto.
E cosa fa? Ascolta, pensa, riflette, si ribella, sogna, entra in una storia non prevista e che pure si rivelerà una storia di salvezza.
Anche la nostra situazione potrebbe essere letta in questa ottica. Chissà che dentro questa crisi non ci sia un messaggio che viene da un Altro, a cui sta a cuore la nostra situazione e che, in maniera non indolore ma sapiente, si sta indicando percorsi capaci di renderci più umani, più fratelli, più attenti alle cose che contano?
E’ un illusione pensare che la nostra sia una crisi economica che passa come un temporale. Viviamo una situazione che forse rappresenta un po’ il capolinea di un sistema non fondato sulla giustizia e che quindi produce continuamente crisi. Possiamo uscirne nella misura in cui ci mettiamo in ascolto attento del nuovo e intraprendiamo strade nuove, inedite.
Giuseppe poi pensa anche ad una denuncia, ma non una denuncia che mette in repentaglio la vita di un altro, in questo caso di Maria, tanto è vero che “decise di ripudiarla in segreto”.
Di ‘denuncia’ abbiamo voglia anche noi! A nessuno sfugge che la grande carestia del lavoro convive, come tutte le carestie della storia, con l’opulenza di pochi, per i quali le crisi della povera gente, o semplicemente della gente comune, non iniziano ne finiscono mai, perché non ne sono toccati, e a volte ne sono anche avvantaggiati.
Ma non è risolutivo lottare contro qualcuno o fermarsi a cercare i colpevoli di questa situazione: occorre cambiare il sistema stesso!
Per uscire dalla crisi non si può continuare a scommettere ancora sul mercato bensì sulle relazioni, non si può pensare che il mondo si regge sulla competizione ma sulla giustizia, non si può ridurre tutto all’economia ma è necessario rimettere al centro l’integrità della persona.
Ecco perché “quest’anno potremmo festeggiare il lavoro oscuro dei tanti manovali della ricostruzione: mai come oggi, infatti, c’è urgenza di ridare un significato spirituale alla fatica dell’uomo. Significato che, anche in tempo di crisi, rammenti all’uomo quello ch’è il primo lavoro di ogni creatura: quello d’imparare a sperare. Quella speranza ch’è il significato nascosto anche nel più umile tra i lavori: additare all’uomo un senso per l’esistenza” (M. Pozza).
L’ultima parola è rinunciare. Quando si avverte che qualcuno vicino è in difficoltà occorre avere il coraggio della rinuncia in vista della condivisione. Giuseppe non si è intestardito nel portare avanti il suo progetto: ha rinunciato ed ha sposato quello propostogli da Dio!
Anche noi, non possiamo fermarci a parlare della crisi, occorre affrontarla con una solidarietà ‘sovversiva’.
Passando per la benedizione delle famiglie ho ascoltato molti apprezzamenti su Papa Francesco e sul suo richiamo alla Chiesa ad essere povera e per i poveri. Non a caso ha scelto il nome del poverello d’Assisi, amante di ‘madonna povertà’ e all’origine di importanti cambiamenti economici, teorici e pratici.
Abbiamo da imparare dal movimento francescano che ha dato vita alla prima importante scuola di pensiero economico, ed è anche all’origine dei famosi Monti di Pietà, i prodromi della finanza popolare e solidale italiana, che tra i promotori ha visto anche il nostro S. Giacomo della Marca.
“Molti francescani, sono stati dottori anche di economia, perché hanno capito che dovevano studiare le novità del loro tempo, dovevano riflettere profondamente sui grandi cambiamenti della loro epoca, mentre stava iniziando una grande rivoluzione commerciale e cittadina che poi fiorì nell’Umanesimo civile. Studiarono economia per amore della loro gente, soprattutto dei poveri” (L. Bruni).
Anche oggi abbiamo bisogno di riscoprire l’importanze morale e civile dello studio e della scienza. Non è ammissibile che, mentre la crisi continua a mietere le sue vittime, in tutte le università si continua a studiare e a insegnare la finanza e l’economia retta dagli stessi princìpi che hanno causato queste crisi.
Ma Francesco è l’uomo della rinuncia ai propri averi. Quando si parla di povertà dovremmo sempre specificare di quale povertà stiamo parlando: di chi la povertà la subisce e di chi la povertà la sceglie liberamente, spesso per riscattare altri da povertà non scelte e subite. Francesco ci ricorda che solo chi ama la buona povertà sa prima vedere, e quindi combattere, quella cattiva.
Finché i programmi governativi, pubblici e privati di lotta alla povertà saranno pensati da politici e funzionari che alternano convegni sulla povertà a vacanze da ricchi epuloni, la povertà continuerà a essere oggetto di studi, report e convegni, ma né vista né capita, quindi non curata. Per curare la povertà servono i carismi, quindi poveri che curano poveri.
Francesco ha curato, quantomeno l’anima, dei lebbrosi di Assisi abbracciandoli e baciandoli: è l’abbraccio la prima forma di cura.
Ecco allora il compito della comunità cristiana: sollecitare ed accompagnare nello studio di nuovi stili di vita e di società, ma soprattutto venire incontro a chi è in difficoltà con l’abbraccio e la condivisione. Nessuno impoverirà perché avrà aiutato qualcuno nel bisogno!
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