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Neanche il coraggio di chiamarla eutanasia

Di Emanuela Viani

Lo choccante video pro-eutanasia diffuso dai Radicali e visibile sui siti internet dei principali quotidiani, al di là delle ovvie implicazioni etiche, ripropone in modo drammatico il tema di come vengono veicolate le notizie. Nel giro di tre settimane due persone, un uomo e una donna, hanno deciso di porre fine alla propria vita affidandosi a una clinica svizzera specializzata in questo genere di “viaggi” senza ritorno. In entrambi i casi i media hanno pudicamente parlato di “suicidio assistito” e non di eutanasia. E oggi, commentando il video di Piera, la malata terminale che ha deciso per l’eutanasia, sulla pagina web di un grande quotidiano è stato scritto: “…ha offerto di farsi riprendere in un filmato e di parlare dell’ultimo viaggio. In una località vicina a Lugano, accudita dal personale specializzato in questo tipo di servizio, è arrivata al suicidio con una forte dose di sonnifero”. Ultimo viaggio, suicidio, dolce morte. Di che cosa stiamo parlando?
Attenzione alle parole, sono il nostro strumento per misurare e definire il mondo, per dargli forma. Manipolare il linguaggio vuol dire manipolare la percezione della realtà. Convertendo una parola poco attraente in una meno brusca si fanno cadere le barriere psicologiche istintive e si rende accettabile ciò che non lo è. Non stupisce, quindi, che i professionisti della comunicazione se ne servano per far passare concetti che, diversamente espressi, evocano invece sensazioni sgradevoli, un retrogusto amaro che non convince. Così, quando si cominciano a leggere notizie relative all’eutanasia derubricate sotto la voce “suicidio assistito”, è meglio alzare la soglia dell’attenzione, perché siamo in presenza di un tipico caso di antilingua.
Il termine fu coniato da , che scrisse: “L’antilingua ha come caratteristica principale il terrore semantico, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente”. Molto simile al politically correct, l’antilingua si distingue dalla lingua perché non comunica la verità, ma una visione della realtà che trova le sue basi nell’ideologia e nella volontà di mistificazione. Gli esempi, parlando di cambiamento di antropologia, partono dal principio della vita, dalla negazione dell’umanità dell’embrione per ridurlo a un amorfo mucchietto di cellule. Nel momento in cui un figlio, è ridotto, povero lui, a “prodotto del concepimento”, è facile pensare che se è un prodotto allora lo posso comprare, e, se lo pago, posso sceglierlo come mi aggrada e posso usarne come mi pare meglio. E ancora, parlare di pillola abortiva, e poi semplicemente soltanto di RU486, fa passare l’idea che non ci sia più una procedura d’aborto (che brutta parola, signora mia!), ma bastino alla bisogna solo un po’ d’acqua e il blister giusto.
La medesima procedura è applicata, ugualmente strisciante, per il cosiddetto dibattito sul “fine vita”, anche quando proprio fine non è. Non è lo stesso dire che un paziente versa in stato di minima coscienza o è in stato vegetativo: nel primo caso lo dotiamo di “anima” quiescente, nel secondo lo rendiamo un vegetale inanimato. E allora, idratare e alimentare una persona che non può più farlo da sola, è prendersi cura o è un inutile accanimento?
Giovanni Paolo II parlava di “indifferenziato pluralismo che tutto riduce ad opinione”: è quel che accade quando la tecnica vince sull’umanità. Quando l’autodeterminazione assoluta prende il posto della responsabilità verso gli altri, e la responsabilità stessa è passata nelle mani di qualcun altro, ecco che quella brutta cosa dell’eutanasia che evoca totalitarismi e soppressioni forzate, viene sostituita dalla dolcezza del “suicidio assistito”, in cui si immaginano dottori sorridenti che accompagnano aspiranti morenti verso i Campi Elisi.
C’è un libro molto bello di Dacia Maraini, una raccolta di racconti intitolata “Mio marito”. In uno di questi la moglie racconta l’attività “benefica” del coniuge che aiuta a risolvere i problemi di coloro che a lui si rivolgono. Un uomo vuole morire ma non ha il coraggio di farlo da solo, così insieme si recano sulla cima di un palazzo in costruzione: “Se sei un vero amico, dammi una spinta e io finalmente sarò contento. Non c’è bisogno che mi preghi, gli ho risposto. Io sono venuto qui apposta per questo, per portarti sul cornicione e per darti una spinta. Tu veramente mi vuoi bene”.
Al netto della letteratura, i Radicali prima veicolano l’idea che a determinate condizioni (ampie per il vero) la “dolce morte” sia un evento auspicabile, anzi da richiedere, anzi da esigere, dopodiché, per essere più chiari, promuovono una raccolta firme per una proposta di legge di iniziativa popolare su “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”. Perché alla fine le cose le devi chiamare con il loro nome.
“Le parole sono importanti!”, strillava Michele Apicella, alias Nanni Moretti in Palombella Rossa, schiaffeggiando indignato l’improvvida giornalista, ma già Calvino aveva avvertito: “La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza di un vero rapporto con la vita, ossia, in fondo, l’odio per se stessi. La lingua, invece, vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione”.
La lingua è vita, negarla è un doppio, terribile, errore che finirebbe solo per qualificarci come “diversamente vivi”.

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