Ecco un anno è passato.
Il 20 maggio la prima forte scossa, il 29 maggio, quando già l’intraprendenza dei più aveva alimentato lo slancio di un’immediata ripresa, il giorno terribile che ha seminato lutto e disperazione. Per alcuni la vita si è spenta, per tanti ne è iniziata un’altra fatta di mobilità, di precarietà, di convivenze forzate all’interno dei campi o nella ricomposizione di più nuclei familiari. Quello dell’emergenza è stato il tempo degli slanci generosi, degli aiuti piovuti da ogni parte, della mobilitazione nazionale con collette, concerti, manifestazioni sportive e tutto quello che la fantasia della solidarietà ha saputo generare nella coscienza di un popolo ancora tanto sensibile nonostante la crisi diffusa. Una scia di bene che fortunatamente non si è interrotta ma continua attraverso i mille rivoli dei rapporti che la tragedia ha allacciato.
Poi è iniziata la fase più critica che ha coinciso con l’inverno, i disagi si sono amplificati e la presa d’atto della realtà ha cominciato a fare i conti con l’implacabile macchina della burocrazia, delle delibere e di tutti quegli strumenti che nei propositi iniziali avrebbero dovuto facilitare la ripresa ma che, insieme al balletto delle cifre dei rimborsi, di fatto l’hanno resa ad oggi un miraggio. Sì le scuole hanno riaperto, gli ospedali hanno ripreso a funzionare secondo un piano graduale di ripristino delle attività, la macchina pubblica è stata efficiente e generosa per se stessa, attingendo a man bassa dalla generosità della gente, ma per il resto…
Le aziende che hanno accettato la sfida si sono attivate inizialmente con risorse proprie, altre hanno rinunciato in partenza complice l’incertezza sulle effettive risorse su cui contare e un contesto di mercato già competitivo che non ammette passi falsi. Nei paesi più colpiti si è ancora nella fase delle demolizioni degli edifici privati. Tecnici e periti ingaggiati dai privati cittadini sono al lavoro da mesi, hanno prodotto studi, progetti, preventivi in ottemperanza agli innumerevoli quesiti delle delibere commissariali ma ad oggi le pratiche approvate in tutta l’area del cratere pare non superino il centinaio. C’è un blocco a livello degli uffici tecnici comunali dove pochi operatori sono alle prese con centinaia di pratiche da valutare in coerenza con tutti i parametri imposti dalle delibere e sempre in coerenza con i farraginosi regolamenti comunali. Cresce l’esasperazione tra i cittadini che chiedono di poter avviare i cantieri. È una pena vedere gente così desiderosa di fare e di ricostruire bloccata dalla burocrazia, dalle complicazioni delle procedure.
Accanto e dentro a questo popolo c’è la Chiesa, il vescovo con i suoi sacerdoti, con le chiese e le canoniche abbattute o inagibili, spogliata in alcuni casi di ogni memoria della sua storia secolare. È stato un anno dove le celebrazioni delle domeniche e delle feste solenni sono state ospitate nei più disparati luoghi di fortuna: tendoni, tensostrutture, cinema, saloni, fabbriche dismesse… Una precarietà di proporzioni mai sperimentate prima d’ora dalla comunità cristiana. Un percorso di purificazione, di ricerca dell’essenziale, di verifica della tenuta della fede stessa e di tutto l’impianto organizzativo e pastorale della diocesi. Rileggere dopo un anno il discorso pronunciato da Benedetto XVI a Rovereto è di grande consolazione perché l’invito del Papa è stato accolto e messo in pratica: “Su questa roccia, Cristo, con questa ferma speranza, si può costruire, si può ricostruire”. Come ha intuito fin dall’inizio monsignor Cavina la paura del terremoto e delle sue drammatiche conseguenze si supera con l’atteggiamento umile verso il Padre che anche a noi dice: “Ritornate a me con tutto il cuore”. Così è stato, seppur dentro i mille conflitti, tensioni e incomprensioni che una catastrofe di tali dimensioni inevitabilmente ha prodotto anche nel cuore di una comunità chiamata a testimoniare per prima il perdono, la condivisione e l’amore reciproco.
Le prime parrocchie, due per la precisione su una trentina senza chiesa, hanno ricevuto in dono dalla Caritas e della Cei i centri di comunità, altri sono già avanti come realizzazione. Man mano che prendono forma e vita hanno l’effetto di uno spiraglio di sole dopo giorni tremendi di burrasca. Si stanno moltiplicando anche i cantieri per sistemare, dove possibile, canoniche e oratori. È sorta anche una casa di accoglienza animata da una famiglia della comunità Papa Giovanni XXIII nella canonica di una delle parrocchie più disastrate per ricordarci che il servizio ai poveri non è sospeso causa terremoto. La gratitudine è immensa per tutto il bene ricevuto in questo anno. Con la consapevolezza che non è dalle pietre che sgorga la speranza ma piuttosto nel ritrovarsi ogni domenica attorno all’Eucaristia, nel celebrare battesimi, prime comunioni o cresime, quei gesti di fede vissuti con fedeltà ammirevole alla propria comunità e alla propria terra, tanto che anche una tenda può rivelarsi bella come una cattedrale. Allora buon compleanno terremoto, inatteso compagno di viaggio di questo frammento della nostra storia.