Di Nicola Salvagnin
CHIESA – Sarebbe da parafrasare il John F. Kennedy che si insediava alla presidenza degli Stati Uniti: non dobbiamo chiederci cosa lo Stato può fare per noi, ma cosa noi possiamo fare per raddrizzare la barra di un’Italia in grande difficoltà.
Perché da troppo tempo e da più parti è tutta una geremiade: lo Stato deve intervenire, deve spendere, deve fare, deve risolvere. Sottinteso: i governanti, che si trovano strozzati tra vincoli di (buon) bilancio e le finanze vuote.
Epperò si sprecano appelli, ultimatum, grida di dolore, richieste di aiuto, lanci di Sos. Anche da quelle tribune imprenditoriali che sembrano attendere il Messia statale, l’asso nella manica finalmente estratto che cambi il gioco in tavola.
Ci si trincera dietro il mantra delle “riforme”, cioè quel cambiamento di regole che finalmente renderanno azzurri i cieli da troppo tempo cupi. Riforme a volte veramente necessarie, salvo il fatto che le regole in Italia non si seguono: si interpretano. E molte buone intenzioni iniziali finiscono poi per lastricare l’inferno delle nostre malefatte.
Insomma: assumiamoci le nostre responsabilità di popolo e di individui, senza delegarle di volta in volta agli americani, all’Europa, allo Stato, comunque a qualcun altro che veda e provveda in vece nostra.
Questo non esime lo Stato, l’ente pubblico – cioè la struttura che ci governa – dallo smettere di… mettere i bastoni tra le ruote.
Facesse bene il poco che gli viene richiesto, sarebbe già una fortuna per tutti. Invece vuol fare molto, troppo, e troppo spesso male. E noi ad invocarlo di fare di più, di intervenire di più, magari pure di nazionalizzare, comunque di spendere e, come al solito, spandere. Fino ad arrivare all’assurdo ideologico di invocare la spesa statale al posto di quella privata nell’istruzione infantile, anche se la prima costa dieci volte di più della seconda. Bologna docet.
Ebbene: rimbocchiamoci le maniche. Tutti. Spingiamo i nostri figli a fare, ad intraprendere, a muoversi, a sfidare un presente immobile. Cerchiamo di imitare i nostri padri, che dopo la guerra ricostruirono un Paese da Terzo mondo e lo portarono tra i primi del pianeta.
Cominciamo ad invocare meno regole, ma a rispettarle: l’Italia non ha “bisogno di leggi”, anzi!, ma di averne poche, efficaci e rispettate. A riempire di parole tanti codici e pandette sono capaci tutte le società in decadenza; a pagare semplicemente le tasse, invece, ci si riesce solo da Lugano in su.
I nostri imprenditori, quelli più queruli, seguano l’esempio di quei loro colleghi che stanno sfidando globalizzazione e recessione inventandosi nuovi prodotti e servizi, cercando clienti in ogni angolo del mondo, creando ricchezza ed occupazione. A certa imprenditoria andrebbe chiesto come mai, da diversi anni ormai, sia passata dall’innovazione alla rendita di posizione. Mentre i finlandesi s’inventavano Nokia, i coreani Samsung e Lg, gli spagnoli Zara e Mango, gli svedesi Ikea e H&M, i francesi Carrefour, Auchan e il lusso in tutte le sue versioni (e lasciamo stare cinesi, giapponesi, tedeschi e gli americani di Google, Facebook, Microsoft, Apple…), noi italiani?
In realtà abbiamo fatto crescere i nostri settori classici – moda, alimentari, arredo – ma tutto in dimensioni tali da faticare assai a trovare vero spazio nel mondo. Mentre i colossi finanziari, manifatturieri, informatici sono lievitati ovunque, noi abbiamo quasi perso l’automobile e l’aviazione, la chimica, la farmaceutica, l’informatica, l’elettronica, molti pezzi di agroalimentare e bancario. Di multinazionale è rimasta solo l’Eni, creatura di Enrico Mattei in tempi ormai lontani. È qui che deve intervenire lo Stato: creando infrastrutture all’avanguardia, accompagnando le imprese nei mercati esteri, accogliendo con le braccia aperte quelle che vengono qui ad investire, sburocratizzando un sistema autoreferenziale che non porta vantaggio a nessuno se non al tirare a campare dello Stato stesso.
Acquistate o vendete uno scooterino, e vi renderete conto che governi tecnici e liberalizzazioni e “lenzuolate” e tante riforme sono veramente passati invano.
E la smetta, lo Stato, di impedire che la società civile faccia meglio quel che lui non sa, non vuole, non ha la possibilità di fare. Ci guadagneremo tutti, lui in primis.
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