I due luoghi sono a distanza fisica ravvicinata – c’è solo rue Belliard che li separa – ma tra una piccola chiesa e un grande palazzo sembra esserci una smisurata distanza immateriale. Da una parte si sosta in raccoglimento e in silenzio mentre dall’altra ci si infervora nel dibattito politico e ci si misura nell’attività istituzionale.
La distanza appare incolmabile: cosa può dire una cappella silenziosa a un enorme palazzo dove si intrecciano voci in molte lingue diverse?
Non sembrano esserci occasione e possibilità di incontro. Eppure ciò che separa i due luoghi è una strada, non un muro.
Bisogna, è vero, fare attenzione perché c’è sempre molto traffico ma rue Belliard si può attraversare e riattraversare in ogni momento. Non è dunque una barriera invalicabile.
Le immagini stradali possono forse riassumere l’idea di fondo della “Week for hope” proposta in questi giorni a Bruxelles dalla Commissione degli episcopati della comunità europea (Comece) per rileggere l’esortazione pastorale post-sinodale “Ecclesia in Europa” di Giovanni Paolo II nel decimo anniversario della pubblicazione avvenuta il 29 giugno 2003.
A fare da guida nell’attraversamento della strada che si snoda tra due luoghi così vicini e così distanti sono alcuni santi, martiri e testimoni della fede che nel corso dei secoli, afferma il card. Reinhard Marx presidente della Comece, “hanno segnato in particolar modo la storia europea”: Jerzy Popieluszko , Pino Puglisi, John Henry Newman, Josef Henry Cardijn, Hildegarda Burjan, Bernardino da Siena, Karl Leisner, Gabriel Piguet, Christian de Cherge, Hildegard von Bingen, Pedro Poveda, Willibrord.
Sono tutti loro che “invitano ad avanzare con sicurezza nell’esperienza dell’alterità tra popoli europei, tra religioni differenti, tra credenti e umanisti, tra uomini e donne, per inventare non solo un mercato ma soprattutto un’arte di vivere insieme dove ciò che l’uno porta trova eco in ciò che porta l’altro. Essi iscrivono le nostre costruzioni politiche, che in certi momenti possono sembrarci molto laboriose, nel disegno misterioso del Padre che è un disegno di unità”.
La riflessione è per i monaci di Thibirine rapiti e uccisi nel 1996 ma nella scia di questi martiri europei in Africa si pongono quanti hanno camminato sulle strade d’Europa, in tempi non meno difficili e tristi degli attuali, senza mai venire meno al desiderio di dire con la propria vita le ragioni della speranza. Una comunicazione intensa, spesso sofferta e drammatica, con la cultura, la società, la politica e la scienza. Sempre con lo stile petrino fatto di retta coscienza, rispetto e dolcezza.
Ma oggi all’altro luogo, al palazzo della politica e del governo Ue, quale messaggio può venire da chi si è posto e si pone al servizio degli altri e chiede alla politica di non dimenticare questo suo fondamento?
Ci sono messaggi che, per raggiungere la coscienza di chi abita i luoghi della politica e delle istituzioni, scelgono tempistiche non scritte sui calendari e percorrono itinerari imprevedibili nelle direzioni, nei tempi, nei modi. C’è una comunicazione che sfugge ad antichi e nuovi paletti mediatici.
Accanto alla cappella e al palazzo ci sono le case.
I messaggi dell’Europa e per l’Europa bussano alla porta della coscienza di quanti tra dieci mesi eleggeranno i loro rappresentanti nelle sue istituzioni “per inventare non solo un mercato ma, soprattutto, un’arte di vivere insieme e dove ciò che l’uno porta trovi eco in ciò che porta l’altro”.
Si apre il tempo dell’attesa: a indicare qualche segnale positivo non sono tanto le previsioni degli esperti e neppure l’eredità intellettuale e spirituale di quanti in tempi non meno bui e tristi degli attuali hanno fatto della speranza il dono più concreto all’Europa.
A rendere possibile un orizzonte con più colori è soprattutto la memoria. E’ quella presenza-assenza che nelle chiese, nei palazzi e nelle case non può rimanere nei ritratti incorniciati o nelle pagine dei libri ma deve diventare il volto di quanti, davanti a quei ritratti e a quei libri, avvertono il richiamo alla responsabilità personale senza la quale la speranza, anche per l’Europa, diventa una parola vana.