L’Egitto è ufficialmente nel caos politico, oltre a trovarsi in piena crisi economica e con una società profondamente spaccata, ormai da anni. Ciò non è solo un problema per gli egiziani, che subiscono in prima persona le conseguenze di questa difficile situazione, ma un pericolo per tutta l’area mediorientale. La situazione a Il Cairo infatti è molto grave e c’è chi teme addirittura una guerra civile. Al momento questa eventualità non sembra la più probabile, ma molto dipenderà da come reagirà il presidente Morsi alle manifestazioni di piazza e da come le forze armate si porranno nei confronti dei Fratelli Musulmani, di cui il presidente è espressione. Negli ultimi giorni in varie città del Paese si sono svolte manifestazioni a tratti anche violente contro il governo in carica. Centinaia di persone sono state arrestate, i feriti sono alcune decine e si sono contati anche sette morti, fra cui un giovane americano. Ieri centinaia di migliaia di persone si sono radunate in Piazza Tahrir come ai tempi della mobilitazione contro Mubarak, per chiedere esattamente la stessa cosa che i manifestanti chiedevano allora, ossia le dimissioni del presidente.
Morsi, però, ha dichiarato che non si dimetterà, essendo stato eletto democraticamente dal popolo egiziano. Per la verità, la validità delle elezioni è stata messa in dubbio dalla corte suprema egiziana, che ha ingaggiato uno scontro istituzionale anche con la commissione che ha redatto la nuova costituzione, fortemente venata di islamismo politico e che Morsi ha fatto approvare in fretta e furia.
Sono le stranezze della giovane democrazia egiziana, o forse sarebbe meglio dire le conseguenze pratiche delle difficoltà che comporta una transizione democratica in un Paese come l’Egitto, in cui non è mai esistito un regime democratico indipendente e dove la cultura politica liberale è patrimonio di una netta minoranza. Come previsto da chi era piuttosto scettico sull’esito della Primavera Egiziana e sulla consistenza del fronte liberal, i Fratelli Musulmani sono riusciti a vincere le elezioni, a lasciare una forte impronta sulla nuova costituzione e a occupare molti ruoli chiave sia nel governo che ai livelli più alti della pubblica amministrazione. In sostanza, la distanza fra la retorica dialogante e l’utilizzo spregiudicato del potere conferito dal consenso elettorale è stata più grande di quanto molti, anche in Egitto, si aspettassero.
Proprio questo malcontento diffuso rappresenta oggi il maggiore collante di un movimento popolare che dichiara di aver raccolto 22 milioni di firme documentabili a sostegno della richiesta di dimissioni del presidente Morsi, ma che oltre a questo è piuttosto frammentato. I leader del fronte laico moderato, fra cui Mohamed El Baradei, ex direttore dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica, sono divisi da forti personalismi e mentre ampi settori dell’opinione pubblica si oppongono a Morsi perché il suo governo non è stato in grado di risollevare la grave situazione economica del Paese, altri sono principalmente preoccupati per le tentazioni teocratiche dei Fratelli Musulmani e dei salafiti.
Al momento è difficile fare previsioni sugli sviluppi a breve termine.
Quasi tutto dipenderà da come i Fratelli Musulmani e l’esercito decideranno di giocare le proprie carte, ma la situazione egiziana richiede la massima attenzione da parte di tutta la comunità internazionale. Se il più importante Stato della regione scivolasse in una spirale di violenza, ne seguirebbero conseguenze molto gravi ad ampio raggio, anche perché Israele a quel punto si troverebbe con due Paesi in guerra ai propri confini.
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