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Reimpariamo a piangere

Di Paolo Ricci Sindoni

Una liturgia di penitenza ha preparato Papa Francesco per la sua breve e intensa sosta a Lampedusa. Ed è stata come un forte grido di espiazione e di pianto per il male verso questi fratelli, doppiamente sventurati, simbolo dei poveri di tutto il mondo, che fuggendo verso mete ritenute di benessere e di pace, trovano la morte e il dolore nell’indifferenza di tutti.
Colpisce l’insistenza del Pontefice verso questo male oscuro che tutti ci attanaglia: l’indifferenza che è peggio dell’odio, come spesso ripete il premio Nobel per la pace e sopravvissuto ad Auschwitz Elie Wiesel. Perché l’odio puoi, in qualche modo, individuarlo e combatterlo, l’indifferenza no, perché si insinua nelle pieghe profonde dell’anima, perché è il cancro invisibile che rode e uccide, prima che sia possibile intravvederlo. Indifferenza globalizzata, l’ha chiamata Papa Bergoglio, perché diffusa ad ogni latitudine e in ogni tempo: l’indifferenza, anestesia del cuore, che ha serpeggiato per anni di fronte ai vagoni di morte nella seconda guerra mondiale, di fronte alla “sua” Argentina e alla brutale dittatura che ha fatto sparire nel nulla centinaia di migliaia di inermi cittadini.
E non è certo solo questione di totalitarismo politico, se ancora oggi queste tragedie disumane continuano, nonostante le democrazie diffuse, nonostante l’Onu e i suoi proclami sui diritti umani, nonostante il rapido sviluppo delle comunicazioni massmediali, che ci restituiscono in tempo reale notizie e immagini sconvolgenti.
Eppure continuiamo a trascinare la nostre vite, pensando che è sempre responsabilità di un altro, come precisa il Papa, conoscitore del cuore umano, ma non disposto a fare sconti a nessuno, nemmeno a se stesso. Di fronte al grido di Dio, dopo la morte di Abele: “Caino, dov’è tuo fratello?”, grido che ancora risuona in ogni parte del mondo, non c’è alternativa al pentimento, alla presa d’atto della propria, specifica responsabilità, al pianto. Sorprende questo riferimento al piangere e alla accorata considerazione che forse nessuno piange più per questa sofferenza e per le tante morti, perché tutti ripiegati sul proprio io e volti alla soddisfazione dei propri, angusti desideri.
Eppure ha ragione il Papa: bisogna reimparare a piangere, ad esprimere in modo concreto, immediato e non simbolico che qualcosa di prezioso – la commozione verso l’altro – si è perso, come si è smarrito il peso del dramma che queste tragedie comportano. È come se il linguaggio non trovasse più le parole per dire partecipazione al mistero di male che ci avvolge, così che il piangere ne fosse invece la sua dimensione più completa, capace di superare la frattura tra la sfera fisica e quella spirituale.
Questa terra assolata di Sicilia, isola dalle tante contraddizioni, capace di essere grembo di accoglienza e di vita e al contempo zona franca in cui fiorisce il crimine organizzato, non può che cibarsi delle parole del Papa e piangere con lui per il fallimento di ciò che è umano in noi e che si è inabissato in fondo al mare, come i corpi dei tanti sventurati, avvicinatisi alle nostre coste.
Dovremo tutti rileggere in silenzio le parole dure e drammatiche di questa omelia, perché scuotano le nostre sicurezze e ci spingano ad una conversione profonda: quei poveri della terra ci riguardano, uno per uno; ce lo ha ridetto con voce forte e rotta questo Papa che guarda con amore gli ultimi. Perché saranno i primi.