Emanuela Venai
Pietro D’Amico era un uomo sano. Probabilmente affetto dal male di vivere, ma sano. Il magistrato morto a seguito dell’eutanasia praticata in Svizzera nell’aprile scorso, stava bene. Non aveva alcuna patologia degenerativa, né altre malattie incurabili. O meglio, parafrasando Marco Melazzini, si potrebbe dire che Pietro D’Amico aveva sì una malattia: era affetto da un’inguaribile voglia di morire. Ma basta questo a giustificare l’azione eutanasica? Per arrivare alla verità ci è voluta la cocciutaggine di una figlia che, come altri orfani di morti ingiustificate prima di lei, non si è mai arresa a una versione dei fatti che non poteva considerare né vera né credibile.
Quando ha ricevuto la telefonata con la quale le veniva annunciata la morte del padre, Francesca D’Amico ha visto il mondo crollarle addosso e ha immediatamente scartato l’ipotesi di una strana e non meglio definita “patologia degenerativa invisibile agli strumenti medici” di cui nessuno in famiglia avrebbe saputo nulla. E ora i risultati dell’autopsia le danno ragione, come reso noto dal legale della famiglia, per cui “i sofisticati e approfonditi esami di laboratorio dei reperti prelevati dal corpo, hanno escluso perentoriamente l’esistenza di quella grave e incurabile patologia dichiarata da alcuni medici italiani e asseverata da alcuni medici svizzeri”. La clinica sostiene che il magistrato si era recato in Svizzera esibendo due certificati medici italiani comprovanti il suo grave stato di salute. Un’autocertificazione presa per buona da una struttura che “aiuta a morire, non a vivere” e che non ha ritenuto necessario eseguire ulteriori accertamenti. Ora la parola passa alla magistratura che dovrà accertare il nesso di causalità fra l’errata diagnosi e quello che è stato pudicamente definito “il triste evento”.
Ai parenti, oltre al dolore, resta l’amara consapevolezza che D’Amico poteva essere salvato, bastava un esame più approfondito, bastava un colloquio, bastava una telefonata alla famiglia da fare prima, non dopo.
Ora, noi saremo un po’ fissati con le parole, ma suicidio assistito vuol dire che se qualcuno si presenta dicendo che vuole morire, invece di tendergli la mano, le orecchie, il cuore, lo si aiuta a scegliere il mezzo con cui uscire dal mondo. È purtroppo nell’esperienza di ciascuno sostenere un genitore, un fratello, un amico, un cugino, un conoscente che ha attraversato o attraversa un momento di particolare difficoltà e fragilità psicologica. Nessuno, però, pensa che la soluzione del problema possa trovarsi nell’eliminazione del portatore del problema stesso.
Viviamo in una società scoraggiata, ripiegata su se stessa, in cui l’eutanasia è sponsorizzata con estrema leggerezza da falsi filantropi, che pensano che l’unica risposta a una domanda di solitudine, di sofferenza, di abbandono, si trovi promuovendo un viaggio senza ritorno.
Eppure non mancano segnali di risveglio e di speranza cui guardare. Papa Francesco a Lampedusa ha parlato al cuore e alle menti: che ne è di tuo fratello? Domanda che non può rimanere inevasa o, peggio, cui non si può rispondere esibendo una distorta forma di compassione che suona più come l’ennesimo tentativo di deresponsabilizzazione che di una reale presa in carico. “Non lo so, sono forse il guardiano di mio fratello?”. Sì invece, lo siamo. Non perché cattolici, ma perché uomini. Guardiani non nel senso di sorveglianti occhiuti, ma di coloro che guardano l’altro e vi si riconoscono, soprattutto quando lo sguardo restituisce l’immagine più dura da vedere, quella di chi chiede aiuto.
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